Non se ne poteva nominare uno senza pensare di riflesso agli altri due. Benché non formassero un trio, i film che si ricordano sono proprio quelli girati insieme. Le sere, quasi tutte le sere, al cinema e fra noi anche Brunone il cui strabismo genetico gli faceva divergere i globi oculari esageratamente sporgenti. Nel periodo, metà anni ’70, spopolavano sullo schermo quei tre comici. Era facile individuare in Brunone il Marty Feldman del gruppo col quale si usciva. Igor (Feldman), il servo gibboso con passo falcato e occhi strabuzzanti in «Frankestain junior», rinviava a Gene Wilder, godibilissimo, e a Mel Brooks che li dirigeva. Le sale esilaravano per quei mattacchioni le cui freddure demenziali costituivano il loro carattere stilistico. E la veicolazione dei loro film, accompagnati da un’aura autoriale che invero ci sfuggiva, raggiungeva finanche le platee del cinema d’essai dove si organizzavano conferenze e dibattiti per cinefili o comunque un pubblico predisposto all’ascolto. Il cinema lo vedevamo come piacevole intrattenimento, niente di più, e figuriamoci quello dichiaratamente comico! Dibattiti e cinefili, cinefili veri o presunti, ci venivano a noia. Terminata la proiezione che aveva procurato grasse risate ce la squagliavamo e buonanotte a chi restava. Una sera capitammo in una sala di cineclub attrezzata per la cosiddetta «programmazione alternativa».

Si proiettava un film la cui prima visione in un cinema convenzionale l’avevamo persa. «L’ultima follia di Mel Brooks», il titolo, con Brooks anche attore. Eravamo andati per ridere, ci limitammo a risolini che uscivano a denti stretti, senza rumoreggiare: si trattava di un film muto, nuovo ma muto. La risata esce fragorosa per una battuta di spirito nel dialogo, però se non si parla… La pellicola parodiava la cinematografia al tempo del muto e al lavoro di Brooks si erano prestati a partecipare, nel ruolo di sé stessi, volti noti come Burt Reynolds, Paul Newman, Liza Minnelli e altri. Al termine della proiezione Brunone, la prima volta in un cineclub, ci convinse a restare ancora qualche minuto, incuriosito della piega che avrebbero preso i commenti e il confronto di opinioni. Nessuno degli spettatori nella piccola sala cominciava a formulare parola dopo l’invito del conferenziere, allora il nostro amico si fece coraggio e volto verso l’uditorio aprì il dibattito: di che cosa si sarebbe potuto discutere su un film muto, a mezzo secolo dalla fine del cinema muto? Con una domanda semplice, ma diretta, aveva innescato una reazione di interventi inaspettata. Se ne tornò fra noi alla chetichella e paghi guadagnammo finalmente l’uscita. «L’occhio che uccide», l’appellativo coniato per Marty Feldman al tempo di «Frankestain» e fatto nostro nel rivolgerci a Brunone con tono canzonatorio, aveva colpito eccome.