Il vertice Turchia-Ue che si è tenuto venerdì 18 marzo per bloccare il flusso di rifugiati verso i paesi dell’Unione segna una nuova fase nel rapporto tra Bruxelles e il Governo turco del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp). Il processo di adesione della Turchia all’Unione si è arenato subito dopo il suo avvio il 3 ottobre 2005 a causa dei veti incrociati di alcune cancellerie europee, con Cipro in testa. Ben 17 capitoli del negoziato furono bloccati dal 2006 al 2009. Da allora ciascuno dei 28 paesi dell’Unione ha preferito condurre le proprie relazioni con la Turchia in modo separato. Eppure, dalla formale accettazione nel dicembre del 1999, ad Helsinki, della Turchia come paese candidato all’ingresso, al 2006, Ankara aveva adottato ben sette «pacchetti di armonizzazione», insieme di riforme tese a migliorare la qualità della democrazia e dello Stato di diritto.

In buona sostanza dal 1999 al 2006, sotto la spinta europeista mostrata dal governo Akp, nei primi anni del suo mandato, Ankara aveva realizzato significativi progressi nell’ambito giuridico e amministrativo, riformando il Codice civile e quello penale. La delusione per il mancato inserimento della Turchia nel gruppo dei dieci paesi che ottennero nel 2004 la piena membership al club europeo, ha determinato una forte delusione e un crollo di fiducia nella credibilità politica dell’Unione.

Molti di coloro che criticano l’accordo sui rifugiati, sostengono che l’Ue abbia venduto la sua anima ad Ankara chiudendo gli occhi sulla condizione dello Stato di diritto in Turchia e sulle violazioni della libertà di espressione perpetrate dal regime di Erdogan in questi ultimi anni con un squallido mercato operato sulla pelle di quei migranti che, arrivati sulle isole greche dal 20 marzo in poi, saranno rispediti in Turchia verso un incerto destino.

Per ironia della sorte, e proprio grazie alla grave crisi umanitaria dei migranti, il deficit democratico che da anni si registra in Turchia è giunto alla ribalta dell’opinione pubblica e delle istituzioni europee. Le capitali europee non avevano mai mostrato la volontà politica di contrastare la pericolosa deriva autoritaria di questo paese. Ora, grazie a questo accordo, tra Ankara e Bruxelles è emersa la necessità di un confronto puntuale e di un dialogo strutturato ed istituzionalizzato su questioni di fondamentale importanza riguardanti non solo la tragedia dei migranti, ma anche quanto avviene all’interno della Turchia e ai suoi confini sudorientali.

Il governo Akp per le sue politiche disastrose sia interne sia estere, appare come un attore isolato nella regione e a livello internazionale. Ha dunque un urgente bisogno di lavorare con un partner come l’Unione europea per rompere questo suo isolamento.

Ma l’Ue sembra ancora cauta nei confronti di Ankara. L’Ue dovrebbe cogliere l’occasione di questo accordo per assecondare la conclamata e reiterata disponibilità del governo turco, a porre immediatamente sotto scrutinio cinque dei sedici capitoli bloccati del negoziato dei adesione. Due di questi capitoli riguardano proprio il sistema giudiziario e i diritti umani fondamentali. Più che generiche denunce, intellettuali e giornalisti turchi chiedono a gran voce che vi sia una forte pressione dell’Ue nei confronti di Ankara sul rispetto dei diritti umani, dando nuovo impulso al negoziato di adesione sbloccando i capitoli 23 e 24 sui diritti umani.

Questo è quanto è richiesto dal Manifesto-Appello, con Marco Pannella primo firmatario, che l’associazione transnazionale di cittadini e parlamentari «Turchia in Europa da Subito» ha rivolto mercoledì 16 marzo al Governo italiano e alle istituzioni europee.