Secondo l’Iss e il ministero della Salute, l’indice di trasmissione del nuovo coronavirus in Italia è a 1,01, appena sopra il livello di guardia. Il virus circola stabilmente ed è difficile interpretare l’evoluzione futura. Chiediamo di farlo a Franco Locatelli. Medico, presidente del Consiglio Superiore di Sanità e membro del Comitato Tecnico Scientifico, Locatelli è uno degli esperti che assiste e consiglia il governo sin dai primi giorni della pandemia. «Persistono circa 200-250 nuovi casi al giorno, un numero che non si è ridotto», spiega. «La situazione non è affatto critica ma il virus circola. Quindi bisogna mantenere un livello di allerta per identificare e circoscrivere eventuali focolai locali. A livello individuale, dobbiamo rispettare quattro principi cardine: evitare gli assembramenti, mantenere il distanziamento interpersonale, lavarsi spesso le mani e indossare le mascherine nei luoghi chiusi o nell’impossibilità di mantenere il distanziamento».

Il presidente del Consiglio Superiore di Sanità, Franco Locatelli

Nel resto del mondo la situazione è ben diversa. Chiudere le frontiere ai Paesi a rischio può essere una strategia sostenibile a lungo termine?

In questo periodo assistiamo globalmente ai numeri più elevati mai registrati, con circa 250 mila nuovi casi al giorno. Ovviamente, non essendo l’Italia avulsa dal contesto internazionale, il rischio di importare alcuni casi è concreto. Ciò ha portato il ministro della Salute alla decisione, da me condivisa, di chiudere i voli provenienti da 16 Stati. Mi auguro che i Paesi oggi più colpiti attuino le misure che si sono dimostrate in grado di contenere la diffusione epidemica. L’altro auspicio è la scoperta di un vaccino che contribuisca a creare l’immunità di gregge, portando all’eradicazione del virus.

Alla fine del lockdown il Cts raccomandava di rafforzare i sistemi di sorveglianza territoriale. A che punto siamo?

Sono nate nuove figure, come gli infermieri di comunità, per rafforzare i dipartimenti di prevenzione incaricati di impedire lo sviluppo di focolai locali. Sono stati approvati provvedimenti che ridisegnano le strutture sanitarie territoriali, per consentire la protezione dei soggetti più fragili per altre patologie o per ragioni anagrafiche. Anche gli ultimi dati, confermano che il 95% delle persone decedute avevano più di 60 anni. Quindi bisogna agire sulle Rsa, sui ricoveri diurni e sulle case di riposo per proteggere questa popolazione.

Per garantire l’accesso universale al vaccino basteranno iniziative filantropiche o saranno necessarie iniziative istituzionali?

La risposta deve essere soprattutto istituzionale. Il governo lo ha ribadito: non è accettabile che il vaccino sia appannaggio di pochi Paesi. Se la pandemia allargasse ancora di più la forbice tra chi ha avuto la fortuna di nascere in Paesi più ricchi e chi no, sarebbe tristissimo.

Nei primi mesi, si prevedeva che per un vaccino sarebbero serviti 18 mesi. Stiamo rispettando la tabella di marcia?

Siamo persino in anticipo. Realisticamente, per i primissimi mesi del 2021 potremmo avere un vaccino. Nella corsa c’è anche l’Italia con un’iniziativa che coinvolge il ministero della ricerca e della salute, il Cnr, la regione Lazio e un’azienda, la Reithera di Castelromano: un progetto innovativo e tutto italiano che inizierà i primi test già in agosto per verificare la sicurezza e poi l’efficacia del vaccino. Ma rimangono ancora tante domande. Dobbiamo capire quanto dura l’immunità conferita da un vaccino e i dosaggi necessari. Nonostante la fretta alcune tappe sono ineludibili. Non si può prescindere dal rigoroso controllo della sicurezza dei vaccini. Nell’editoriale di ieri sul New England Journal of Medicine, Anthony Fauci sottolinea che anche nell’emergenza di una pandemia le strategie che pagano di più e meglio sono quelle più rigorose. Altrimenti si rischia di produrre dati contraddittori o di dover ritrattare degli studi, com’è avvenuto per l’idrossiclorochina.

Ricerche recenti mostrano che nelle persone guarite gli anticorpi diminuiscono nel giro di qualche mese.

Potrebbe permanere l’immunità mediata dai linfociti T, che hanno un ruolo primario nella risposta alle infezioni virali ma sono più difficili da studiare. In ogni caso ne sappiamo ancora poco. L’immunità dal coronavirus della Sars dura anni. Per altri coronavirus, come quelli responsabili del 20% dei comuni raffreddori, dura pochi mesi. Sono tutti argomenti da studiare con attenzione così come il fenomeno dell’immunità innata, le cellule cosiddette «natural killer». Anzi, le anticipo un risultato: i dati che abbiamo raccolto insieme ai colleghi dell’istituto Spallanzani dimostrano che una risposta più efficiente delle cellule natural killer è correlata a sintomi meno gravi della malattia.

La riapertura delle scuole di settembre si avvicina: sappiamo qualcosa in più sul contagio tra gli adolescenti?

Circa i due terzi dei soggetti più giovani hanno sintomi assenti o lievi, contro un 40-45% tra gli adulti. I bambini sotto i 15 anni sembrano avere una probabilità di contagio tre volte inferiore degli adulti. Ma possono trasmettere il virus a loro volta. Dato che sono più spesso asintomatici, possono dare vita a focolai detti «silenti» soprattutto in ambito familiare.

Con prudenza, la scuola potrà ripartire?

La scuola deve assolutamente ripartire. Gli studenti devono avere tutte le garanzie di sicurezza ma così come nel momento peggiore era prioritario chiudere le scuole, ora è altrettanto prioritario riaprirle. Le lezioni a distanza non possono sostituire la didattica frontale. Come dice Ivano Dionigi, ex-rettore a Bologna e forse il miglior latinista italiano, la scuola forma cittadini e non solo conoscenze.