Quella del fiume che scorre è una delle immagini fondative della moderna letteratura lusofona: nel «Canto I» del canonico poema del Cinquecento I Lusiadi, Luís Vaz de Camões invoca le Tagidi, ninfe del Tago, perché sostengano «Um estilo grandíloquo e corrente»; in una delle più note Odi, nel 1914, Ricardo Reis – eteronimo di Fernando Pessoa – esorta la donna amata: nella traduzione di Antonio Tabucchi, «Vieni con me a sederti, Livia, in riva al fiume./ Fissiamo caldamente il suo corso e impariamo/ Che la vita passa, e non teniamo le mani intrecciate./ (Intrecciamo le mani)».

Nel corso degli anni António Lobo Antunes ha sempre ribadito, con formulazioni via via più colorite, il suo stravagante disprezzo per Pessoa; a Camões ha invece riservato un trattamento più ambiguo: lo ha trasformato in un personaggio del suo Le navi – romanzo del 1988 (Einaudi, da tempo fuori catalogo) – nel quale una ciurma di coloni sconfitti e spogliati di qualsiasi aura epica fa ritorno dalle ex colonie africane, nel 1975, certificando la fine dell’orrenda pagina imperialista. Tra i retornados, in una perfida sincronia, sfilano i volti mesti, tra gli altri, di Camões e dei navigatori Diogo Cão e Vasco da Gama, i quali, arrivati a Lisbona, non possono se non constatare la sopraggiunta impossibilità di coltivare retoriche di grandezza del popolo portoghese, visto che ormai «il Tago puzza di liquami» e il Monastero dos Jerónimos è «consacrato ai matrimoni domenicali».

Compiuto un simile rito di «conversione» letteraria, lontano da ogni attitudine grandíloqua, vent’anni dopo Le navi Lobo prese a prestito un verso di Camões per il titolo di un suo romanzo del 2010: Sôbolos rios que vão (ora tradotto da Vittoria Martinetto per Feltrinelli con il titolo Sopra i fiumi che vanno, pp. 224, € 18,00) tratto da Redondilhas de Babel, a sua volta palinodia del Super flumina Babylonis contenuto nel Libro dei Salmi.

È questo il Camões accolto da Lobo, l’uomo che sottrae il percorso fluviale biblico alla dimensione mistica per farne un’allegoria dell’esistenza nel nostro doloroso incontro con il tempo. Sopra i fiumi che vanno è la storia un uomo anziano e malato che dal letto dell’ospedale nel quale è ricoverato ripercorre, per frammenti e disordinatamente, alcuni momenti del suo passato. Scene d’infanzia – un carretto di legno spinto a viva forza su una collina, qualche remoto trauma (il padre accartocciato su una donna che non è sua moglie, nella penombra della dispensa) – impastate a ricordi più vicini, colloqui con i genitori perduti, dialoghi con i medici. Come in quasi ogni libro dello scrittore portoghese, a invadere la pagina è il suono di una voce, un timbro oscillante tra lirismo e umorismo, senza barriere tra prima, seconda e terza persona singolare.

A differenza degli esperimenti polifonici sfociati negli anni Novanta nella «trilogia di Benfica» (Trattato delle passioni dell’anima, assieme ai magnetici e struggenti L’ordine naturale delle cose e La morte di Carlos Gardel, nei quali alcuni tra i protagonisti sono a loro volta costretti a letto da infermità), si va precisando via via in Sopra i fiumi che vanno la presenza di un personaggio diverso da tutti gli altri: i medici lo chiamano «signor Antunes», e i suoi, da piccolo, «Antoninho». Il richiamo autobiografico è reso dunque trasparente: il romanzo è la ricostruzione letteraria dei quindici giorni (per quindici capitoli) nei quali l’autore venne ricoverato a Lisbona per una grave malattia.

Lobo appartiene a quel tipo di scrittori che sembrano aggiornare, mano mano che la loro bibliografia si dilata, un unico grande racconto, uno smisurato «libro delle voci» che si va componendo nel corso dei decenni, all’interno del quale il signor Antunes trova posto accanto a tutti gli altri, senza che all’elemento autobiografico venga attribuita una collocazione di spicco. Il suo è un flusso di ricordi nitidi, che tornano a galla attraverso le corrispondenze (l’infermiera che spegne la luce in camera, come sua madre tanti anni prima) e i dettagli (un gessetto, il carro di legno, il profumo di un fiore, la sorgente dell’amatissimo fiume Mondego, immagine ricorrente nel testo), che pure sembra perdere di consistenza nel suo oscillare avanti e indietro nel tempo.

Non riuscendo a ritrovare i «luoghi», le sensazioni che pensava di aver custodito nei ricordi, l’uomo passa dallo stupore alla disperazione: non riesce a sentire il suo stesso ricordare. Come poi scopriremo, il signor Antunes è imbottito di morfina; la formazione da medico psichiatra, che da sempre guida Lobo nell’«ascolto» – così lo chiama – delle sue voci romanzesche, qui gli suggerisce una riflessione sul rapporto tra immaginazione e memoria: il ricordo è il frutto di una attività creatrice, attraverso la quale riadattiamo e diamo un ordine alle reminiscenze. Ma è vero altresì il contrario: è l’immaginazione a nutrirsi e a germogliare dalla memoria. In virtù di questo legame, Sopra i fiumi che vanno assume la valenza di vero e proprio testamento artistico: nel flusso di ricordi si inseriscono frammenti del passato spuri, non vissuti direttamente da Antoninho, che arrivano a sostegno dell’ormai flebile attività di recupero delle tracce mnestiche del signor Antunes. In questo tempo oltre il tempo, in questa abolizione del confine tra passato e presente, tra coscienza e finzione, la «voce» trova forse il suo antidoto contro la morte, quel «miserabile miracolo», avrebbe detto Henri Michaux, che è la letteratura.

L’immagine del fiume si offre, nell’opera di Lobo, a due letture complementari; una è quella poetica che si richiama ai versi di Camões, il corso d’acqua come immagine filosofica dell’inarrestabile scorrere del tempo e della «illusione sincronica» della memoria umana; l’altra è di ordine estetico: struttura e ritmo della scrittura sembrano assecondare l’andamento di un corso d’acqua – la cui superficie può dare una impressione di disordine ma la cui «corrente» procede in modo uniforme nella stessa direzione – grazie a una morfologia nella quale il punto fermo è abolito, e in cui le interruzioni sono date da «salti», anche a metà della riga, che cadono a cascata sulle parole sottostanti.

Il risultato è una musicalità ridondante che avvicina, a tratti, lo stile di Lobo a quello del poeta in lingua portoghese da lui più ammirato: João Cabral de Melo Neto e la sua «trilogia del fiume» (in Italia parzialmente tradotta con Morte e vita severina, Einaudi e poi Robin), che tratteggia scene di vita agreste e persone comuni con una lingua ripetitiva e ritmata, nella quale il silenzio tra i dialoghi si dilata fino a occupare uno spazio poetico dominante. È quanto accade in Sopra i fiumi che vanno.

Il grande poeta e studioso Jorge de Sena, annotando le Redondilhas di Camões, scrisse della «ossessione di eliminare ogni iato possibile»: la stessa che sembra informare da anni la letteratura impetuosa, estenuante, magnifica e fluviale di António Lobo Antunes.