Oblio, irripetibilità, memoria condivisa ma probabilmente non «collettiva», rigurgiti che si incastrano in vite successive, dolore, rabbia, incomprensioni, lotte, scontri, baluardi, ferite, vittime, morti, tanti: i modi per definire il mondo che ruota intorno alla memoria della rivoluzione culturale sono molti, eppure la Cina ancora non ha contribuito a creare quel meccanismo di «memoria collettiva» necessaria a far sì che l’evento possa essere compreso e scartato da future soluzioni storiche.

Questo è accaduto perché il Partito ha messo una pietra sopra agli eventi, chiedendo di non tornarci, e tuffando in avanti un’intera popolazione: c’era da produrre, c’era da creare la «Nuova Cina». E oggi c’è da consumare, comprare, sviluppare, dimenticare, andare avanti, non importa come. L’importante è che il Partito sia centrale, che il caos non si ripeta.

La Cina avanza. Il «sogno cinese» non ha bisogno di ricordi. Nel documento «Risoluzione su alcune questioni della storia del nostro Partito, dalla fondazione della Repubblica popolare cinese», approvato nella sessione plenaria dell’undicesimo Comitato Centrale del Pcc il 27 giugno 1981, viene indicata la via per interpretare da lì ad oggi quegli eventi raccolti intorno al nome di «Grande Rivoluzione Culturale Proletaria».

Si tratta di una interpretazione che diventerà contemporaneamente «memoria collettiva» e informazione storica. La sentenza del Partito comunista sancisce alcuni concetti chiave: in primo luogo quella che chiamiamo rivoluzione culturale è catalogata come «decennio perduto»: il Partito ha deciso che la durata del fenomeno arriva fino al 1976 (e vedremo perché la scelta temporale diventerà una forte presa di posizione nell’interpretazione dei fatti); in secondo luogo la rivoluzione culturale fu voluta da Mao.
Con una «scusante»: dato che Mao all’epoca era già anziano, nel documento si lascia intendere che il vecchio leader non sapesse più distinguere tra amici e nemici; infine, la rivoluzione culturale fu un errore e un periodo di caos da non ripetersi mai più.

Quello che ci interessa è la valutazione sulla rivoluzione culturale. Associare i due periodi, quello tra il 1966 e il 1969, e quello che seguì (e che arriva fino al 1976, alla morte di Mao e alla successiva eliminazione della «banda dei quattro» e il ritorno al potere di Deng) significa sovrapporre due momenti storici ben diversi. Chi interpreta infatti la rivoluzione culturale come l’estremo tentativo di salvare il partito – e il paese – dalla burocrazia che avrebbe poi sostenuto il processo capitalistico (oltre a ripristinare Mao al centro della scena politica del Partito), la fa ricadere in un periodo ben preciso: dal 1966 (in particolare dal maggio 1966) fino a quando Lin Biao nel 1969 sancisce la fine della rivoluzione culturale. Anche perché, come osservano alcuni storici, anche dopo il 1976, perfino nel 1983, si trovano ancora tracce di processi a ex Guardie Rosse.

Ma in atto è un altro processo. Il documento del 1981 ha finito per sancire una lettura imposta, che ha influenzato tutta la produzione successiva, dalla «letteratura delle cicatrici» fino ad arrivare all’ampia gamma di interpretazioni che oggi è presente sul web, nonostante l’argomento sia tra quelli «censurati» dai solerti funzionari del partito. Si parla molto spesso – al riguardo – di una rimozione di quanto accaduto: non è esattamente così. Esiste una letteratura storica nella quale si mischiano le vittime, i tormenti e le ingiustizie, compresi i milioni di giovani mandati in campagna, dove per altro i contadini neanche li volevano.

Non manca la memoria, ma una riflessione collettiva, guidata dalla politica e dagli intellettuali, capace di far riflettere sui fatti del passato, come accaduto in Germania per il nazismo. L’oblio cinese, se così vogliamo dunque definirlo, sembra funzionale all’odierno sviluppo capitalistico cinese, dominato dalla centralità del Partito comunista. In un libro dal titolo Landscape of the chinese soul, the enduring presence of the cultural revolution, (Karnac, 2014), le interviste a diverse generazioni di cinesi e la loro rappresentazione di quegli eventi, conferma proprio questo.

La posizione ufficiale del partito ha finito per segnare ogni interpretazione al riguardo, depotenziando la memoria di tutti gli elementi che potrebbero permettere un «superamento» di quel periodo. L’interpretazione diventa univoca e rappresenta un oblio, anziché una riflessione cosciente.

Significa annullare il passato, come se mettendolo da parte, potesse scomparire.

Come scrivono gli autori del volume, esperti di psicologia sociale sinologi, che esaminano l’oblio degli eventi storici e il loro impatto sulle generazioni successive, «il documento del 1981 era un tentativo non solo di legittimare la nuova leadership, ma anche di porre un termine ai conflitti interni del paese. La spiegazione dei “dieci anni caotici” come un conflitto tra élite interne e le masse era così convincente che è stato perpetrato nella storia popolare, nella letteratura e nei lavori autobiografici. L’immagine era convincente anche per l’Occidente, perché apparve fin da subito disponibile a confermare l’assunto del fallimento del socialismo e l’approccio orientalista nel considerare un Oriente irrimediabilmente dispotico».