Da piccolo a scuola lo chiamano «Måsen», il gabbiano, per il colore della sua pelle, bianca e nera allo stesso tempo. Ha padre nordafricano e madre svedese. Il suo nome – Samuel – l’ha scelto il padre, ben sapendo come si comportano i proprietari di casa e i datori di lavoro davanti ai nomi stranieri «che cominciano con “h” e richiedono due schiarite di gola che partono dallo stomaco per essere pronunciati». Adesso ha una laurea in Scienze politiche e un lavoro all’Agenzia nazionale per l’immigrazione a Stoccolma.
Ma ciò che continua a fare di lui una persona speciale è il suo entusiasmo, la sua fiducia nella vita e la curiosità nei confronti di tutto ciò che il mondo può offrire. Samuel è uno che si ferma a leggere i patetici cartelli dei mendicanti sotto i ponti, va serafico in palestra tra i cultori della forma fisica e, vestito in modo improbabile e con un corpo quasi rachitico, prende a saltare con la corda con nonchalance estrema. Si avvicina agli estranei al banco del bar per chiedere loro una definizione dell’amore e la sua unica ossessione è il pensiero che i ricordi non sopravvivano, per questo ha deciso che vivrà quante più avventure possibile, per depositarle in quella che lui chiama la sua «Banca delle Esperienze». Infine, si innamora, perdutamente. Di Laide, ma appena la storia finisce, perde tragicamente la vita: incidente o suicidio? È quanto cerca di scoprire un giovane scrittore, restituendoci in tanti frammenti narrativi quella che è un’unica immagine andata in mille pezzi.

La storia di Samuel non è così altro che il riflesso delle infinite tessere di uno specchio distrutto. Tante tessere che rimandano una medesima realtà, sempre la stessa, sempre tutta intera in ogni singolo frammento, eppure mai uguale, come le innumerevoli coscienze che riflettono il mondo e lo raccontano. E in questo modo ci restituisce la storia di Samuel lo svedese Jonas Hassen Khemiri (1978), nel suo ultimo romanzo Tutto quello che non ricordo (tr. it. di Alessandro Bassini, Iperborea, pp.329, euro 17,50), vincitore del prestigioso Augustpris, che in passato si aggiudicarono autori svedesi del calibro di Torgny Lindgren, Tomas Tranströmer, Göran Tunström e Per Olov Enquist.

Nato e cresciuto in un elegante quartiere di Stoccolma da padre tunisino e madre svedese, una prestigiosa laurea in Economia con esordi professionali a New York, Khemiri ha tuttavia sempre dovuto combattere contro l’ostilità di un ambiente sociale dominato dal pregiudizio legato al colore della sua pelle. È così che i temi dell’integrazione, dell’identità e della lingua, sono sempre al centro della sua produzione letteraria, romanzesca e drammaturgica (per quasi dieci anni lo scrittore si è dedicato esclusivamente al teatro).
Già noto al pubblico italiano soprattutto grazie al brillante romanzo uscito nel 2009 per Guanda Una tigre molto speciale (Montecore) – tradotto in oltre venti lingue – lo scrittore ha fatto parlare di sé nel 2013 per una lettera aperta uscita anche sul Corriere della Sera indirizzata al ministro della Giustizia svedese sul programma di espulsione degli immigrati clandestini («Gentile Ministro, scambiamoci la pelle»). Khemiri è a Milano in occasione del festival di cultura nordica I Boreali, organizzato dal 2 al 5 febbraio dall’editore Iperborea al Teatro Franco Parenti.

Pressoché tutta la sua attività di scrittore indica un rapporto conflittuale con il passato: Samuel, il protagonista del suo ultimo romanzo, «Tutto quello che non ricordo», non sembra tanto disperato per la rottura con la fidanzata, quanto per la consapevolezza che tutto ciò che ha vissuto con lei presto sarà dimenticato; nel suo libro precedente, «Montecore», citava invece le parole di Cartier-Bresson, il quale diceva a proposito del nostro rapporto con la storia che «cerchiamo di cancellare il passato, ma esso ritorna sempre come un rutto». Com’è possibile riconciliarsi con il passato?
La scrittura è la mia auto-terapia. Le parole mi hanno sempre dato la sensazione di poter controllare il passato. Con la scrittura abbiamo la possibilità di tornare indietro, riscrivere tutto, rinominare il mondo. Purtroppo questa sensazione di controllo spesso non si rivela che una mera illusione. Non so mai dove mi porterà un romanzo che scrivo. Se solo sapessi dove andrò a finire, il romanzo tenderebbe a spegnersi di una morte triste e lenta. Non ci sono schemi o fogli excel che tengano, per rianimarlo. La mia strategia letteraria è sempre stata ascoltare le voci. Provare (anche se è difficile) a non avere paura di perdere il controllo.
«Non cercò di inquadrarmi scavando nella mia storia. È per questo che siamo diventati amici». Lo dice proprio il migliore amico di Samuel, Vandad, quando racconta del loro primo incontro. Che cosa significa?
Vandad è sollevato nel conoscere uno come Samuel, che gli permette di svincolarsi dal suo passato problematico. Samuel è un individuo che cerca disperatamente di vivere nel momento e forse, proprio a causa della sua pessima memoria, consente a Vandad di essere semplicemente chi lui è in quel preciso istante, non chi era nel passato. In fondo la sola cosa buona dell’amnesia è che ci dà la possibilità di sperimentare il mondo di nuovo, liberi da preconcetti. Credo vi sia una certa possibilità di libertà nel dimenticare. Nel mio romanzo ogni persona che ricorda Samuel sceglie allo stesso tempo di omettere e dimenticare alcune cose di lui, per riuscire a convivere con il senso di colpa della sua morte.

L’entusiasmo è un’altra importante caratteristica comune dei protagonisti dei suoi romanzi. Pensa che sia conciliabile con l’esperienza? O che un’accresciuta esperienza sia destinata a uccidere l’entusiasmo?
Credo che l’entusiasmo implichi una certa dose di autoinganno per sopravvivere alle esperienze della vita di tutti i giorni. Quante bugie può comportare una vita? Non lo so con certezza. Ma è una domanda interessante, le risposte potrebbero essere molte e diverse, in ogni romanzo.

Come descriverebbe il suo rapporto con la città di Stoccolma?
Se fossimo su Facebook la risposta potrebbe essere «complicato». È una città che amo, ma che allo stesso tempo amo odiare. Forse perché ci sono cresciuto, e vedo molto chiaramente i confini economici che dominano all’interno di essa. È una città ricca di bellezza: acqua, ponti, panorami… Ma è anche una delle città più segregate in cui abbia mai vissuto. C’è una grave mancanza di luoghi d’incontro dove persone con diversi background, età e storie possano trovarsi. Scrivere questo libro per me è stato un modo per creare tale luogo d’incontro, dove tante persone diverse, con un passato molto diverso, tutte che conoscevano Samuel, potessero trovarsi e difendere la loro versione dei fatti.

Come mai, dopo tanti anni di teatro, ha deciso di tornare al romanzo?
Non vedevo l’ora di tornare al romanzo. È stato così per anni. Ho scritto drammi e racconti, ma ho sempre continuato a cercare una storia che mi facesse sentire il bisogno di raccontarla in forma di romanzo. Samuel, col suo terrore che la vita gli scorra via tra le dita senza lasciare nulla, era il personaggio perfetto per un libro. Le righe di un libro tendono a essere più durevoli delle parole pronunciate su un palcoscenico. E poi adoro i romanzi che spingono il lettore a diventare co-creatore di un mondo fittizio.

Qual è, tra le sue opere, quella a cui è più legato?
Sempre ciò che ho scritto ieri. O poco prima, oggi. Non perché sia necessariamente migliore di quello che ho scritto dieci anni fa. Ma il lavoro più recente porta sempre con sé una certa speranza in un potenziale, il sogno che quanto finirà sulla pagina corrisponda – seppur remotamente – un po’ di più alle voci che sento nella mia testa.

C’è uno scrittore contemporaneo che lei considera un suo modello?
Ci sono un sacco di scrittori grandissimi da cui traggo ispirazione. Al momento sono affascinato dai racconti di Amy Hempel, dalle canzoni di Kendrick Lamar e dai libri di Svjatlana Aleksievic. E, ovviamente, da ogni cosa (o quasi) abbia scritto Roberto Bolaño.