Il fenomeno delle «imprese recuperate» sta crescendo in tutti i paesi colpiti dalla lunga Recessione, come era avvenuto in Argentina all’indomani del crac finanziario del 2001. È uno dei modi con cui i lavoratori sono tornati protagonisti del loro destino, reagendo alle cosiddette leggi del mercato capitalistico. Era successo anche nei paesi dell’est, all’indomani della caduta del muro di Berlino, quando furono chiuse migliaia di fabbriche statali e si avviò bruscamente un processo di deindustrializzazione e privatizzazione. Personalmente, nel periodo 1994-1996 ho promosso con il Cric (una ong meridionale molto attiva in passato), il recupero di tre imprese nel settore dell’abbigliamento a Tirana, Valona e Durazzo. Grazie alla collaborazione del Forum i Grua Shiptar (Forum delle Donne Albanesi) , sono state costituite delle cooperative di donne tra quelle che erano state licenziate. Anche se non si poteva parlare di vere e proprie cooperative, per via dei trascorsi storici che ne avevano distorto le finalità , lo spirito era quello e furono avviate delle produzioni di camicie (a Tirana e Valona) e di biancheria intima a Durazzo.

Le prime due esperienze andarono male per diversi motivi, invece a Durazzo in pochi anni la cooperativa crebbe e riuscì a sopravvivere alla guerra civile del marzo/aprile 1997 , scatenato dagli sgherri dell’ex presidente Berisha. Le donne di Durazzo difesero la fabbrica recuperata con ogni mezzo, impedendo che venisse bruciata insieme ad altri edifici pubblici della zona. A distanza di più di vent’anni l’impresa recuperata di Durazzo, diretta da Elvira Ajazi, è un modello sociale per tutti i Balcani: le donne ricevono un salario mediamente più alto del resto dell’Albania, hanno l’asilo nido e la mensa nella fabbrica ed un buon livello di partecipazione alla gestione dell’azienda. Unico neo è quello che questa impresa recuperata lavora su commesse di due grandi aziende italiane nel settore dell’intimo per bambini. Ed è questo il punto dolente, non solo in Albania. Infatti, quando parliamo di “imprese recuperate”, dovremmo usare il quadrangolare e vedere come queste imprese si collocano nelle filiere produttive. Ci sono infatti “imprese recuperate” che entrano a pieno titolo nella catena dello sfruttamento e dell’accumulazione capitalistica. Altre che invece fanno parte di quella sfera dell’economia che il grande Fernand Braudel definiva “economia di mercato” dove il denaro è solo un intermediario negli scambi e dove la relazione sociale permane forte e trasparente (Braudel parla di «occhi negli occhi e mano nella mano» ). O se vogliamo in quella forma di economia mercantile che Marx individuava nel circuito «Merce-Denaro-Merce» opposta a quella del mercato capitalistico che si fonda su Denaro-Merce-Denaro.

È questa la questione politica di prima grandezza con cui fare i conti. Se le imprese recuperate concorrono a realizzare quelle filiere produttive legate ai principi dell’Altreconomia – basata sulla ricerca del prezzo equo e della solidarietà – se entrano in circuiti dove c’è un rapporto diretto tra consumatori e produttori, se si avvalgono del credito elargito dalla finanza non profit, allora possono costituire un tassello importante per l’alternativa al modello socio-economico dominante. Altrimenti sono ottime esperienze per chi le fa, ma vengono utilizzate e sfruttate dal sistema.