Può un lettore provare empatia per un ispettore di polizia disgustoso? Si possono seguire in modo partecipato le peripezie di un poliziotto «carogna e ruffiano»? Di solito la risposta sarebbe «no», ma tutto cambia se a gestire la scena è Loriano Macchiavelli e se il personaggio in questione è «lo zoppo», ovvero Poli Ugo, vice ispettore aggiunto. Einaudi ha deciso di ripubblicare L’archivista, (postfazione di Tommaso De Lorenzis, 14 euro), uscito per la prima volta nel 1981 nel catalogo Il Giallo Mondadori, diretto da Oreste del Buono.

Il ritmo dell’indagine – che attorciglia tre storie sovrapposte a tessere un unico filo di disgustosa commedia umana – risente del tempo trascorso ma la prosa di Macchiavelli è straordinaria per vari motivi: per lo stile di scrittura e la capacità di ambientazione, per l’innovazione data dalla presenza del narratore nella storia e infine per la scelta di porre al centro della scena l’ispettore zoppo, «la bestia» segnata dall’incidente che gli ha maciullato la gamba, relegandolo a un’invalidità cui non si rassegna. Poli dovrebbe archiviare i casi non risolti, ma considera i propri «colleghi» dei buonianulla. E quindi segue le tracce dei rapporti lasciati lì dagli altri, fino a risolvere il caso. Per quanto riguarda lo stile di scrittura, Macchiavelli mette in scena gli anni 80.

Il romanzo racconta quell’inesauribile conformismo venduto come originale, sullo sfondo di città in preda alla paura e a una tensione molle e nauseabonda. Un retroterra di violenza dal quale non sorge un miglioramento, bensì lo scostamento fatale: quello che crea il tappo decisivo alla possibilità di un cambiamento vero. Un periodo da cani, da vigliacchi, da finti innovatori.

La scrittura di Macchiavelli è un rasoio tagliente; l’ambientazione umana è quella del mondo di una crew cinematografica che si ritrova a girare un film. Personale umano che confonde realtà e finzione al punto da concepire sigle brigatiste solo per gioco. Un piccolo ritratto di un universo perso a occultare materiale pornografico, utile a coprire un film sulla guerra di Spagna girato da un regista mussoloniano. C’è tanta Italia. È del resto il compito storico del giallo quello di mettere in croce la propria epoca. Poco conta la soluzione degli enigmi al centro della scena del libro (una morte, uno scippo finito male e la scomparsa di una pellicola): è l’epoca che non ha una soluzione. I gialli in Italia oggi sono diventati per lo più un genere «conformista». Scrive De Lorenzis: «Cerchiamo dei detective con cui le lettrici abbiano voglia di andare a cena, ammetteva una volta un editor». Hai voglia ad andare a cena con Poli Ugo, auguri.

Per Macchiavelli infatti la letteratura è ancora indagine sociale, è ancora un campo privilegiato per chi ha intelligenza. Per chi ne ha abbastanza da precorrere tempi. E anche «lo zoppo» i tempi – a suo modo – li precede: l’indagine è tutta racchiusa nel suo cervello, nelle sue deduzioni, nella sua abilità di riconoscere l’animo umano specie se è malsano, contaminato dalla miseria intellettuale, dalla piccolezza borghese. Il ritmo non è dunque paragonabile a quello delle fiction o dei gialli attuali, specie quelli americani; il motivo principale di questa apparente calma, è che tutto si basa sull’arguzia della bestia. «Zoppo» sì, ma mica lavora con la gamba destra, come precisa più volte Poli Ugo nella sua indagine.
Cinema, fascisti, ex fascisti, filmini porno: tutta la sciattezza di una società che si finge avanzata e che in realtà vive di piccolezze, piccole persone e segreti che sono segreti solo per il popolo.

Quest’ultimo non è certo innocente. E questa disgustosa cornice non può che essere raccontata da quello che oggi definiremmo un hater. Un odiatore a causa dei suoi fail: un uomo cinico per necessità, perché un senso a quanto accade non si può trovare. E sta proprio nella scelta del personaggio centrale il messaggio forte di un libro potente (anche nella trama, piuttosto complessa e avvincente). Come scrive De Lorenzis: «Macchiavelli è fatto così, gli è sempre piaciuto rompere i coglioni. Che poi è un modo meno nobile e più prosaico per dire quello che diceva Oreste del Buono: «Io non so se Machiavelli sia il più bravo giallista italiano. So però, e di questo sono sicuro, che è il più coraggioso giallista italiano». Questo giudizio vale ancora oggi.