Uno zombi si aggira per il palazzo presidenziale e nessuno sa più cosa farsene. Nel caos in cui si sta inabissando il Brasile, attraversato da un angolo all’altro dal grido «fora Temer», la cosa più logica, dopo le dimissioni del contestatissimo presidente della Petrobras Pedro Parente, sarebbe la rinuncia dell’illegittimo presidente della Repubblica, seguita dalla convocazione di elezioni anticipate. Ma nulla può la logica contro l’interesse non solo di Michel Temer, deciso ad aggrapparsi al potere con le unghie per paura che fuori dal Planalto lo attenda la galera, ma anche dell’élite, che proprio non vuole saperne di andare al voto nelle condizioni attuali: il candidato socialdemocratico Geraldo Alckmin, ha oggi un indice di consenso così basso da poter difficilmente aspirare al secondo turno.

Anche volendosi accontentare del male minore, come potrebbe essere non tanto il filo-fascista Jair Bolsonaro (impresentabile agli occhi del mondo e anche difficilmente gestibile) quanto Ciro Gomez (paradossalmente evocato, almeno da alcuni, anche come possibile piano «B» del Pt), c’è sempre il fantasma di Lula a compromettere la legittimità del processo elettorale. Un fantasma di giorno in giorno sempre più reale, se è vero che, secondo l’ultimo sondaggio, oggi l’ex presidente vincerebbe addirittura al primo turno (con il 39% delle preferenze).

TRAMONTATO almeno per il momento il tentativo, portato avanti all’interno del Supremo Tribunale Elettorale (Tse), di impedire a Lula la registrazione della sua candidatura presidenziale – troppo eclatante la violazione della giurisprudenza vigente -, un’altra ipotesi sta prendendo piede in Brasile, tale davvero da configurare un golpe nel golpe: il passaggio dal regime presidenziale a quello parlamentare. Un desiderio non certo nuovo tra le élite brasiliane, periodicamente tentate dalla possibilità di liquidare le elezioni dirette del presidente della Repubblica per mantenere così il controllo del Paese attraverso la maggioranza conservatrice in Parlamento, ma oggi visto davvero come la soluzione all’impasse delle destre rispetto alle presidenziali di ottobre.

La benedizione viene nientedimeno che dalla presidente del Supremo Tribunale Federale Cármen Lúcia – la stessa che si è rifiutata di esaminare la costituzionalità dell’arresto dei condannati in secondo grado – la quale, andando a ripescare un’azione interposta addirittura 21 anni fa contro tale ipotesi dall’allora deputato del Pt Jaques Wagner, ha fissato per il prossimo 20 giugno la discussione sulla possibilità per il Congresso di adottare il parlamentarismo tramite un mero emendamento costituzionale, senza bisogno di un plebiscito.

C’È POI ANCHE LA CARTA da giocare di un possibile rinvio delle presidenziali, ipotizzato, durante la paralisi provocata dallo sciopero dei camionisti, dal presidente del Tse Luiz Fux, secondo cui, «se qualcosa di simile avvenisse in ottobre», lo svolgimento delle elezioni potrebbe risultare compromesso. Crescono d’altro canto – alimentandosi del caos – anche le voci a favore di un intervento delle forze armate, non a caso risuonate assai spesso durante i 10 giorni di protesta dei camionisti contro la politica di adeguamento del prezzo dei carburanti a quello del barile di petrolio sul mercato internazionale.

Una crisi, quella legata alla politica energetica, che non si risolverà certo con la rinuncia di Parente, per quanto rappresenti la maggiore sconfitta incassata finora dai golpisti. Sotto accusa, come ha anche indicato la protesta «di avvertimento» dei lavoratori del settore petrolifero, è il tentativo di privatizzare Petrobras, anticipato dall’annuncio della vendita di quattro raffinerie e dalla riduzione del piano di investimenti, nell’ottica di puntare sulla sola esportazione del greggio, importando dall’estero, e soprattutto dagli Stati uniti, i derivati come benzina e diesel.

UNA POLITICA di autoboicottaggio, insomma, diretta a condannare nuovamente il Brasile al ruolo di mero esportatore di materie prima senza valore aggiunto, a tutto vantaggio del capitale straniero. A ennesima conferma di quanto il petrolio stia diventando più una condanna che una benedizione per i Paesi che ne sono provvisti, allontanandoli oltretutto da quel futuro energetico 100% rinnovabile, che, in epoca di cambiamenti climatici, appare per l’umanità l’unica strada percorribile.