Cristina Piccino
CANNES
A Touch of Sin variazione-citazione-omaggio a A Touch of Zen, capolavoro di King Hu, il nuovo film di Jia Zhangke, in concorso, racconta dal titolo le sue storie di vendetta proletaria sospese tra un quotidiano «ordinario» e la la potenza rivoluzionaria delle sue immagini. Cosa è quel «tocco di peccato», la macchina neocapitalista globale delle nuove ricchezze? – «Dove vuoi andare – dice un ragazzo all’amico che sogna l’altrove – Tutti i paesi del mondo sono in crisi». Il respiro incessante del lavoro in un paesaggio mai inerte, in cui il corpo è acceso 24 ore su 24, in fabbrica o come strumento di piaceri, a coltivare la terra, pulire le verdure? Nessuno sembra mai fermarsi nel nuovo mondo cinese di ricchezze e miserie, lusso sfrenato e sopportazione silente che asseconda l’ambizione di conquistare un giorno «anche io» qualcosa.

Però ci sono limiti che nessun essere umano può sopportare, oltre i quali o si rivolta collettivamente o reagisce in solitudine. Ma in questa specie di moto continuo cosa significa – se ha ancora un senso – rivoluzione? Il regista, il più amato della nuova generazione cinese dal festival di Cannes che lo ha invitato molte volte volte, storna nella Cina contemporanea che è al centro del suo cinema, dal primo film, Xiao Wu, artisan pickpocket (1997), al cui protagonista (come anche a molti altri), il ladro emarginato perché incapace di adeguarsi al nuovo sistema sociale, i quattro personaggi di questo somigliano condividendone la stessa esasperazione estrema. A differenza di tutti gli altri però loro reagiscono, rispondono alle vessazioni con una violenza surreale , e ferocemente politica che è quella dei film di King Hu, Tsui Hark, o di Takeshi Kitano, che lo coproduce, e sembra avere disseminato le sue «Sonatine» nella realtà sospesa di Jiang Zhang Ke.

[do action=”citazione”]La sfida è perciò alta, e semplice, insieme: iniettare quella spettacolarità politica nelle immagini nella realtà quotidiana rivelandone l’oppressione feroce.
Prima storia: il capo del villaggio ha venduto la miniera a una società privata, lui, il padrone e il contabile si sono arricchiti un soldo agli abitanti che continuano a lavorare e acclamano il padrone come un dio. L’uomo vuole denunciarli, perciò tutti lo guardano male, finché non viene picchiato per tacere e poi pagato. Ma all’ennesima beffa scoppiano schizzi di sangue splatter e li fa fuori tutti.[/do]
Seconda storia, il tizio silenzioso che attraversa le strade deserte, lavoratore migrante ha scoperto che uccidere per professione fa guadagnare meglio e con meno fatica. La terza storia una donna aspetta che l’amante lasci la moglie, lui continua a temporeggiare, e intanto la moglie le manda due tizi a picchiarla. La donna lavora in una sauna, e quando due clienti tentano di violentarla, non riesce più a subire, prende un coltello e ne ammazza uno. Quarta storia, un ragazzetto passa dalla fabbrica a lavorare in un locale notturno per uomini facoltosi, che sembra la versione erotica di The World, il parco di attrazioni a tema al centro del precedente film di Zhangke, fino a ammazzarsi stroncato dall’ansia del denaro. Western, romanzo storico-popolar-criminale, opera tradizionale, A Touch of Sin è un «wuxia» sul mondo di oggi: dal nord al sud della Cina, i protagonisti scoppiano all’improvviso, bombe deflagranti di una miseria che è ricchezza, sintomi di un malessere diffuso in quell’attività incessante, nelle trasformazioni rapide di cemento , tra la polvere nera delle miniere e nelle fabbriche squadrate che somigliano a scatole delle scarpe. La geografia quotidiana di Zhangke non conosce retorica, i mercati, egli animali, veri o sognati che possono suicidarsi, lo sguardo prolungato dell’uomo che osserva la bimba prima di sgozzarle l’amata papera, le sue archeologie industriali e quello sprezzo per la dignità dei ricchi ovunque siano – lo stesso regista si riserva il ruolo di un cliente del locale – ci rivelano qualcosa, l’epifania del nostro tempo, i suoi conflitti e le inesauribili contraddizioni.

Non è solo per l’Oscar a Una separazione che il nuovo film di Asghar Farhadi era tra i titoli imperdibili a ncor prima che il festival iniziasse. È che Le Passé è il primo film del regista iraniano girato fuori dal suo paese, in Francia, e in francese tra l’altro con la star nazionale di The Artist Berenice Bejo. La storia è ancora una volta una vicenda familiare, con andamento da film da camera, che Farhadi tesse tra le mura di una casa nella periferia parigina, e nell’abitacolo dell’automobile con cui i protagonisti vanno in città. Lì si ritrovano due ex, lui iraniano ormai tornato in Iran, lei francese che gli ha chiesto di tornare per il divorzio. La donna, due figlie da un altro marito ancora, vuole infatti sposare un nuovo compagno, padre di un ragazzo. Ahmad scopre però che la donna gli ha celato molte cose, a cominciare dall’ostilità della figlia maggiore contro questo nuovo futuro marito, e piano piano le storie si accavallano, i intrecciano l’una all’altra: quale sarà la verità. Farhadi costruisce la sua trama come la tessitura di un tappeto, un dettaglio ne produce un altro e via ancora, per necessità consequenziale. Ma il suo cinema è un cinema di scrittura, e di parola, come ha mostrato Una separazione solo che stavolta il regista sembra preoccuparsi più a tenere insieme lo svolgimento della storia che della messinscena sacrificando i lampi di cinema presenti nel precedente.

Quali sono i segreti – ammesso che vi siano – che spaventano tutti i personaggi? Più che un singolo evento è l’assunzione di verità nei confronti di loro stessi a terrorizzarli, ciascuno si dice la propria storia, le cose come vuole sentirle per non ferirsi, per non soccombere al senso di colpa che sormonta tutto e tutti. Forse è una questione di poco amore per i personaggi che il regista mostra, e di quella misoginia implacabile che fanno della sua protagonista una donna insopportabile, stupida e ottusamente attaccata alla sua necessità di moglie/madre a tutti i costi. I fili che tessono come un tappeto la storia – o le storie – aggiungono a ogni passaggio in dettaglio in più, qualcosa che ci possa rivelare il dramma e il malessere che attraversa i suoi personaggi, per denudarli infine nei loro rimpiattini emozionali, così simili e vicini a quelli di qualsiasi altro essere umano. C’è forse un qualcosa dell’entomologo, ma poco importa, se ci fosse compassione. E invece Farhadi sembra tenere le distanze, se non spingerli il più possibile lontano lasciandoli – e assecondandoli – fino all’ultimo (la mano stretta alla donna in coma) nelle loro devastanti ipocrisie.