Emergency nasce con il proposito di portare cure e assistenza medica laddove disuguaglianze, conflitti, discriminazioni rendono difficile, quando non impossibile, l’accesso. Nasce sulla scia di un sogno, o di una follia, che però agisce concretamente da molti anni. Una sfida difficile. Ma questo non impedisce di alzare sempre l’asticella: quando Gino Strada ha contattato Renzo Piano per proporgli di progettare il nuovo ospedale in Uganda, gli disse che lo voleva «scandalosamente bello». E così è stato.

Com’è nata l’idea di un ospedale sostenibile dal punto di vista ecologico con il coinvolgimento di Renzo Piano?

L’idea di costruire un secondo ospedale, dopo quello in Sudan, era in ballo da tempo: nel corso di una serie di incontri che hanno coinvolto i Ministri della Sanità di vari paesi del continente, sono uscite le priorità di ciascuno e l’idea condivisa di una nuova struttura che potesse accogliere i pazienti di tutti quei paesi, non solo di quelli del paese ospitante, cosa possibile come del resto ha dimostrato l’esperienza dell’Ospedale Salam, che ha curato pazienti da più di 30 paesi. Ci sono voluti anni per raccogliere i fondi e una volta individuato il luogo più adatto ho subito pensato a Renzo Piano, perché è un architetto di fama internazionale e considero i suoi lavori stupendi. Non ci conoscevamo ancora personalmente, gli ho telefonato per fargli la proposta e lui mi ha risposto immediatamente sì. Successivamente ci siamo trovati nel suo studio e abbiamo parlato di come avremmo voluto questo ospedale: è stato un bellissimo lavoro di collaborazione e il risultato è davvero commovente.

In che modo questo ospedale ha cura dell’ambiente oltre che della salute?

La prima idea geniale è stata quella di costruire i muri utilizzando la terra di scavo delle fondamenta, quindi non importando nuovo materiale da costruzione ma riciclando l’esistente; questo è stato possibile anche grazie a lungo lavoro di ricerca: l’utilizzo della terra cruda è una tecnica di costruzione molta antica ma farci un ospedale è una cosa molto diversa: si tratta della costruzione più grossa in terra cruda mai realizzata, non si trova un muro portante così lungo realizzato in questo modo. Inoltre, per noi sostenibilità significa anche e soprattutto partecipazione della comunità. L’attenzione per il verde è un’altra componente della bellezza e dell’umanità di questo ospedale. In previsione della costruzione dell’ospedale sono stati piantati una grande quantità di alberi che ora verranno trasferiti all’interno del giardino.

Perché in Uganda? In che contesto sanitario e sociale si inserisce?

Nel 2007, all’inaugurazione del Centro Salam di cardiochirurgia in Sudan, era presente anche una delegazione del ministero della Sanità ugandese. Colpito dagli alti standard dell’ospedale, l’allora vice ministro della Sanità disse che avevano cercato di fare qualcosa di simile, ma da soli non ci erano ancora riusciti. Allora abbiamo iniziato a lavorare insieme, definendo i principi comuni, che erano uguaglianza, qualità, gratuità, responsabilità condivisa. C’è voluto molto per trovare i soldi, una grande donatrice ci ha consentito di dare il via ai lavori. In Uganda il sistema sanitario è molto debole: gli ospedali sono pochi e si trovano principalmente nella capitale, questo è un problema generale dell’Africa. Siamo aperti da poche settimane e ci sono ancora pochi pazienti rispetto alla possibilità dell’ospedale, ma stanno aumentando. In Uganda stanno vivendo un momento critico, è stato dichiarato il lockdown e questo rende difficile il trasporto.

E’ impressionante vedere una struttura del genere in un contesto così complesso, un servizio di eccellenza e gratuito: si tratta di un messaggio anche per i paesi ricchi. Cosa lo rende possibile?

L’ospedale esiste grazie principalmente alle donazioni, e anche con la partecipazione del Ministero della Sanità Ugandese con cui abbiamo stilato un memorandum: loro si impegnano a coprire il 20% di tutte le spese: non è molto ma già un bel passo, perché non comprende solo le spese di costruzione ma anche di gestione. Per il futuro quindi si andrà avanti utilizzando i contributi dell’Uganda e anche di altri paesi africani da cui abbiamo ricevuto la richiesta di inviare i loro pazienti: è una rete logistica da mettere ancora in piedi ma la direzione è quella. Non so se sarà un messaggio anche per i paesi benestanti, perché i messaggi bisogna essere pronti ad ascoltarli: purtroppo costruire un ospedale da noi dipende molto di più dalla politica e dalla burocrazia; non vedo un progetto di sanità, e per quanto riguarda gli ospedali, si costruiscono brutti e non accoglienti perché la medicina è soggetta a profitto.

Qual è stato l’impatto della pandemia in Africa? A che punto sono le vaccinazioni?

L’evoluzione della pandemia in Africa purtroppo è in larga parte sconosciuta non essendoci una vera e propria raccolta dati. Non essendoci centri vaccinali e centri territoriali è difficile fare i conti: il fatto che l’Uganda abbia ordinato il lockdown significa che la situazione è preoccupante. Ci sono paesi che non hanno ancora visto né un tampone né un vaccino, e questo è un elemento che andrà ad impattare anche sul futuro funzionamento dell’ospedale: si fa venire un paziente da un paese africano magari lontano, dopodiché se risulta positivo al Covid non si può operare. Gli effetti del programma Covax sono molto limitati, perché la situazione generale è quella di una produzione insufficiente di vaccini che vengono pre-acquistati dai paesi ricchi, a costi che questi paesi nemmeno si possono immaginare di acquistare.