Sole e pioggia si alternano in Laguna. Poi d’improvviso, lo tsunami. Che è politico, parla di malaffare e conduce ad un arresto di massa, sindaco Giorgio Orsoni compreso. Corruzione, maxitangenti: al centro c’è il Mose, un’opera che avrebbe dovuto salvare Venezia dall’acqua alta e che, invece, l’ha affondata. L’inchiesta covava da tempo, ma il suo exploit avviene durante i giorni del vernissage della Biennale di architettura 2014, quando in città si aggirano centinaia di professionisti della stampa di tutto il mondo, oltre che architetti, delegazioni delle ambasciate e vip vari.

Il Mose ora è un mostro e quell’imputato urbanistico rappresenta una coincidenza che chiama in campo il fare stesso degli architetti, la loro funzione di «ponti» della mutazione del mondo. La festa è rovinata, l’imbarazzo si propaga sottovoce. Il presidente Baratta ribadisce l’importanza dell’evento culturale: la numero 14 è una Biennale che punta sulla ricerca, sullo sconfinamento dei generi, cinema teatro danza, e apre un confronto fra operatori del settore, una mostra che insiste sui cambiamenti avvenuti in molte parti del pianeta, ma anche sulle profezie e illusioni spezzate della modernità. Poi, procede oltre.

In conferenza stampa, nessun accenno al disastro in corso, parla soltanto delle tematiche affrontate dalla kermesse, ma in altri contesti ha rilasciato dichiarazioni a difesa del primo cittadino finito ai domiciliari nel blitz: Baratta confida nella magistratura e nelle indagini successive. Lo sconcerto del pubblico, però, è evidente: molti giornalisti stranieri se la ridacchiano fra loro, è come se l’Italia confermasse il suo cliché di delizia e maledizione, confermando quell’etichetta che porta appiccicata sulla pelle di paese dei balocchi che pullula di Lucignoli. Dall’altra parte, gli abitanti di Venezia, i ristoratori, i commercianti, le persone più anziane appaiono assai smaliziati. Il terremoto e lo sconquasso della città non li stupisce affatto. Qualcuno dice anche che Venezia (o l’Expo di Milano) non è altro che una prova generaledi una globalizzazione marcita troppo in fretta. O che forse era marcia fin dall’inizio.

In fondo, nella mostra Monditalia alle Corderie gli umori del presente vengono presi all’amo e descrivono un’Italia «residuale», che inciampa nelle fessure della storia, incerta fra luoghi dell’entertainment alla Mirabilandia e spazi per la custodia delle vestigia antiche: Pompei, ad esempio, viene riproposta anche in cubetti conservativi di mini-reperti in plastica: i visitatori se li possono liberamente portare a casa come souvenir (sempre meglio dei crolli e della sparizione per catastrofi «naturali»). C’è anche L’Aquila nel suo immobilismo demoniaco. Roma poi ha l’immaginario «occupato» – le lotte di Cinecittà per esistere vengono qui ricordate – e nella presentazione di Milano non manca una mappatura di tutte le infiltrazioni mafiose, una cartografia delle collusioni politico-criminali. Il curatore, inoltre, ha voluto offrire una specie di archivio espanso degli elementi-base della costruzione architettonica – dalle porte alle maniglie ai mattoni fino agli elettrodomestici, senza nessuna ansia classificatoria né enfasi. Anche in questo caso, a causa di tutti i sogni infranti dalla cosiddetta modernità, molti di quegli «oggetti» sono quasi divenuti scarti, segni deteriorati, «rovine» di un universo frammentario e spesso poco integrato con le esigenze umane.