Quel peculiare intrico di discussione letteraria, problematizzazione filosofica, riflessione politica che ricorre negli scritti di Maurice Blanchot si inaugura nella sua quarta raccolta di articoli, forse la più avvincente e carica di influenze prima dei grandi lavori apertamente filosofici editi a partire dalla fine degli anni Sessanta, Il libro a venire (traduzione di Guido Ceronetti e Guido Neri, il Saggiatore, pp. 287, € 27,00) già pressoché introvabile a ridosso della sua prima uscita da Einaudi, mezzo secolo fa.

«Nell’esplosione dell’universo di cui facciamo esperienza, prodigio! i pezzi che precipitano hanno vita»: è sotto il segno di questo verso di René Char che Blanchot rinnova la sua volontà di discutere la letteratura e in generale l’arte partendo da nuovi presupposti. Rispetto alle sue tre precedenti raccolte di studi critici (Passi falsi, La parte del fuoco, Lo spazio letterario – quest’ultima riedita lo scorso anno, sempre dal Saggiatore), Il libro a venire segna infatti una decisa evoluzione: l’inventività teorica e lo stile espositivo paradossale delle precedenti prove saggistiche sono sempre lì, ma si accompagnano ora a una diversa autonomia di pensiero (la prospettiva heideggeriana è ben meno presente che in Lo spazio letterario) e a una più franca volontà di discutere il fatto artistico superando il piano meramente critico-estetologico.

Benjamin sullo sfondo
Nel momento in cui raccoglie in volume gli articoli apparsi tra il 1953 e il 1958 sulla Nouvelle Revue Française sotto il titolo di «Ricerche», Blanchot costruisce in effetti una sequenza che gli permette di affrontare questioni di profondo impatto teoretico: il senso e la dicibilità delle esperienze radicali di estraneazione, impersonalità, sofferenza a cui gli uomini del nostro tempo si trovano esposti in forme inedite; il ruolo dell’artista e dell’intellettuale in un mondo che, col tramontare dell’«età della carta», vede una chiara perdita del prestigio sociale delle loro opere (perdita che per Blanchot è tutt’altro che negativa: il Benjamin di L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica non è lontano); la strana sfida, fondamentale per lo scrittore, costituita dall’«interesse pubblico, insaziabile, ma sempre soddisfatto, e che trova tutto interessante pur senza interessarsene», ovvero il confronto con quella comunicazione collettiva «universale» – a cui con il nuovo secolo siamo andati sempre più assuefacendoci – nella quale «tutti, sapendo tutto in anticipo, non vogliono saperne di sapere».

Dopo le vorticose pagine introduttive intitolate «Il canto delle Sirene», sorta di sondaggio del significato assegnato all’incontro dell’uomo con l’immaginario, Blanchot, discutendo l’esperienza e la produzione di scrittori come Proust e Woolf, Henry James e Musil, Mallarmé e Beckett, ma anche Rousseau e Goethe, concentra la propria attenzione sui versanti più problematici, disagevoli, quasi invivibili della scrittura: su quegli aspetti spossessanti dell’attività letteraria che affiorano quando chi vi si impegna si sente necessitato a compierla, «vocato» irrimediabilmente all’arte del discorso, anche qualora (come persino il giovane Goethe!) sia più convinto di fallire che di riuscire, abbia più incertezze su di sé e sui propri mezzi che garanzie sull’importanza di ciò che tenta di fare per rispondere a una «realtà» che gli si manifesta come presente e però inafferrabile, già raggiunta ma sempre ancora sfuggente.

Analizzando da critico i termini specifici della logica incongrua, ambivalente, rischiosa che connota l’esigenza letteraria quando sia assunta nella sua radicalità e si preservi dalle derive più facili del genere romanzesco e della narratività imbonenti, Blanchot si espone anche come scrittore – e scrittore di racconti tra i più singolari del secondo Novecento – Tommaso l’oscuro, L’Altissimo, La sentenza di morte, L’ultimo uomo, La follia del giorno. Così, non ultimo né meno prezioso, l’apporto che si offre nel Libro a venire consente una visione dall’interno – ma al tempo stesso singolarmente «oggettiva» ed «esatta» – dell’esperienza estetica nel suo compiersi, nei suoi paradossi più forti, nei suoi rischi più fondamentali. Una visione, soprattutto, della posta in gioco che quell’esperienza implica quando tenta di far fronte al «reale» delle cose e degli uomini senza ridurlo a inerte abitudine, a insieme di elaborazioni percettivo-cognitive acquisite, e piuttosto provando a sentirlo nella sua sorprendente estraneità, nella sua capacità eccedere ogni possibile modo di cattura, qualsiasi segno, simbolo, immagine tenti di bloccarlo. Per Blanchot ciò di cui l’esperienza dell’arte si fa carico e che per essa è davvero – gioiosamente, disastrosamente – «reale», è qualcosa che, irrompendo con la sua contingenza e la sua alogicità nella trama delle significazioni date, le lacera senza rimedio e richiede l’invenzione di forme e modi che siano capaci di accoglierne l’indomabilità e trasmetterne l’insistenza, articolandosi a partire dall’assunzione di questo strappo.

Verso un punto imprendibile
Nello stabilire tra la «realtà», l’autore, l’opera una strategia di rapporto che era rimasta insospettata e nel descriverla come l’esperienza di una indigenza, di una debolezza, di un’angustia radicali, indotte dalla necessità di dirigersi verso un punto imprendibile, non è raro che Blanchot alluda alla prossimità di questa situazione-limite a certi tratti profondamente problematici delle esperienze che nella nostra epoca colpiscono gli uomini esponendoli a un’infelicità anonima e a un’angustia senza limiti. Ed è a partire dall’avvertimento di questa strana prossimità che la sua riflessione individua una possibile zona di contatto tra attività intellettuale e prassi politica. Il libro a venire esce in effetti pochi mesi dopo che Blanchot si è risolto ad affiancare l’iniziativa promossa da alcuni intellettuali dissidenti di sinistra (oltre a Mascolo, gli stessi Antelme, Duras, Morin, Vittorini) contro la prosecuzione della guerra d’Algeria, il colpo di stato del generale Salan (maggio 1958) e il ritorno al potere di De Gaulle che ne seguì, con l’appoggio dei militari.

Tra le pagine che compongono il volume andrà così intravisto anche l’inizio di quella ricerca che di lì a poco porterà Blanchot a interrogarsi sul pensiero e le prassi più idonei a tenersi solidale a quanti soggiacciono a prevaricazioni così intense da inibire ogni forma di resistenza e ogni vera possibilità di parola. Da questa ricerca nel 1960 discenderà l’elaborazione della celebre «Dichiarazione dei 121» sul diritto all’insubordinazione nella guerra d’Algeria.
Per Blanchot, a partire da Il libro a venire l’essenziale diventa riconoscere il limite estremo di ciò che compete alla natura umana – una «nudità che si può incontrare, ma non stringere, in quanto si sottrae a ogni presa» – sforzandosi di indicarlo facendo leva su enunciati capaci di trasmetterne l’estraneità. È qui che si radicano la contestazione del malinconico destino storico delle pratiche intellettuali abituali e l’opzione per una scrittura e un’arte in grado di far passare l’irriducibilità di quel punto-limite in uno spazio in cui esso potrà affermarsi come «reale, potente e attraente», e manifestarsi allora come la verità di una porzione di esistenza comune.