È un fiume in piena, l’esplosione del tappo da una bottiglia troppo a lungo sotto pressione. Massimo D’Alema dalle colonne del Corriere della Sera cannoneggia il Pd, «finito in mano a un gruppetto di persone arroganti e autoreferenziali», che respinge il ricorso di Bassolino «perché in ritardo. Ma qui siamo oltre l’arroganza. Siamo alla stupidità», le primarie «manipolate da gruppetti di potere», diventate «un gioco per falsificare e gonfiare dati». Ce n’è per tutto il partito, da Renzi in giù, passando per Orfini, appunto quello «arrogante», giù fino al candidato sindaco di Roma Roberto Giachetti inchiodato a un fotomontaggio della rete in cui traina un risciò in cui è seduto Renzi («la città ha bisogno di una personalità più forte»). Giù giù fino alla minoranza Pd per la quale ha parole di compatimento: «non mi pare che riesca a incidere sulle decisioni fondamentali», anche perché «non c’è nessuna battaglia nel Pd». Giù ancora fino alla sinistra fuori dal Pd alla quale pure voleva suggerire, o imporre, un candidato sindaco al posto di Stefano Fassina, ovvero l’ex ministro Massimo Bray. A questa sinistra che si sforza di rifondarsi ancora una volta D’Alema non dà molto credito: «Inutile costruire nuovi partitini».

Quando di buon mattino l’ex premier si materializza a piazza Montecitorio per recitare un magistrale intervento in un seminario sulla guerra organizzato dal professore Carlo Galli (Si), rincara la dose: «La rottura a sinistra rischia di far perdere le elezioni, i voti che porteranno Verdini e Alfano non compenseranno i voti persi», ma se il Pd perderà le amministrative «non credo che Renzi si scolli dalla poltrona».

La contraerea del Pd renziano e diversamente renziano si alza subito: sono solo «le ultime ruote di un pavone dai colori sbiaditi» (l’ortodosso Federico Gelli), «la strategia che per ricostruire il centrosinistra va sfasciato il Pd ricorda Tafazzi» (il turco Francesco Verducci), «è ormai un antagonismo radicale al Pd» (il veltroniano Walter Verini). Matteo Orfini, ex pupillo dell’ex premier risponde con ironia tagliente: «È un non senso essere disconosciuti da D’Alema per l’arrganza». Il pezzo grosso dell’artiglieria, c’è da scommettere, arriverà domenica da Renzi, che parlerà alla scuola di formazione politica del Pd.

Ma a occhio i più arrabbiati per le esternazioni dell’ex premier sono quelli della minoranza interna, soprattutto quelli di rito bersaniano che ieri inauguravano la tre giorni a San Martino in Campo (Perugia) che dovrà consacrare Roberto Speranza candidato alternativo al futuro congresso. D’Alema «gli ha rovinato la festa», come sbotta Stefano Fassina con un collega. C’è del vero: l’ex premier ruba la scena a una minoranza del resto ormai ridotta all’afasia. Era già successo esattamente un anno fa: durante un’altra kermesse della minoranza, stavolta all’Acquario di Roma, D’Alema dal palco aveva fatto numeri a colori e i titoli erano stati tutti per lui. Anche quella volta. Quella volta Gianni Cuperlo, altro ex pupillo dell’ex premier, aveva replicato don durezza, stavolta suggerisce ai dirigenti Pd di interrogarsi «sulle ragioni che spingono una personalità di spicco della sinistra italiana a un’accusa così severa».

Su tutto aleggia l’eterno spettro della scissione. D’Alema non ne parla, ma stavolta fa un passo in più: prevede che «l’enorme malessere» alla sinistra del Pd può trasformarsi in un «nuovo partito», chiede di «ricostruire il centrosinistra» «dall’interno del Pd e dall’esterno, perché in molti se ne sono andati». Per quanto lo riguarda dichiara che a Roma voterà «liberamente da cittadino romano» quindi non necessariamente il candidato del Pd (e aggiunge che la candidatura dell’ex ministro Bray, quella che spaventa il Pd, sarebbe «quella di maggior prestigio per la capitale»). Infine sul referendum costituzionale spiega di non sentirsi vincolato «se non dalla coscienza». Non è l’annuncio di un imminente addio ma poco ci manca. Infatti da Perugia scende il gelo sulle sue parole. Roberto Speranza, senza mai nominarlo, gli risponde: «La nostra sfida è dentro il Pd, senza ambiguità: abbiamo due piedi dentro il Pd. È il nostro partito, ci crediamo, lo amiamo».

Certo, a parole anche qui viene invocato il ritorno al centrosinistra. È stato anche invitato Ciccio Ferrara, che in Sinistra italiana è il capofila di quelli che temono la deriva minoritaria della nuova forza politica postvendoliana. Ferrara dal palco chiede di «preparare, già adesso, la prospettiva della sinistra italiana del futuro». Pier Luigi Bersani risponde sì, ma a condizione che questo non significhi uscire dal Pd: «Può esistere un centrosinistra di governo se si dà per perso il Pd? No, può esistere una sinistra di testimonianza, cosa nobile ma che a noi riformisti non può bastare». Bersani incita i suoi a «alzare la voce su cose indigeribili». In realtà i suoi lo fanno da sempre. Salvo poi votarle.