È invalso un uso dell’aggettivo «storico» sul quale la mia educazione mi obbliga a riflettere, mentre mi vieta di applicarlo a mia volta. Un impiego del termine «storico» che, dopo aver preso campo nei trascorsi di lingua poco sorvegliati o nella conversazione più o meno distratta, lo trovi ora nel resoconto televisivo, nella pagina del quotidiano o nel cosiddetto instant book. Mi riferisco a frasi come: «la storica fidanzata di Giovanni». O: «il portiere storico del palazzo all’angolo». O: «lo storico bassotto di Luigina». Difficile negare che questa corrente fruizione del termine «storico» non sia rivelatrice d’una idea di storia che trapela, mentre trascorre i vasti territori dell’interlocuzione quotidiana. Un’idea non più confinata ai livelli incolti e bradi dove si raccolgono i cascami delle culture, come si dice, alte e capace di rivelare la percezione diffusa di cosa si possa intendere, genericamente, oggi, in Italia, per storia. Il senso della storia che una società mostra di avere, riveste un particolare interesse poiché comporta numerose e nevralgiche conseguenze non solo sul piano politico, ma su quello civile.

Che idea di storia tesse la stoffa condivisa nella quale si avvolgono e abbigliano ragionamenti e giudizi dichiarati e diffusi? Dal barbiere allo studente, dall’imprenditore al giornalista, dal cuoco al deputato nominato, ai sindaci, governatori sottosegretari e ministri con e senza portafoglio. Nell’italiano odierno, un arco breve di mesi o di pochi anni autorizza a definire «storico» un rapporto, un avvenimento, un negozio, un animale domestico, una ricetta. Avverti l’intervenuta assenza d’una educazione alla riflessione sulla storia, una obsolescenza della cultura storica, dei suoi elementari rudimenti, non si dica della cognizione critica, della latitudine filosofica che la contrassegna. Ahimè, la consapevolezza storica non sta nel computo degli anni, pochi o tanti. Cronologia! Una drastica riduzione dei tempi storici parve autorizzata dallo studio della Bibbia. Sulla base del «Vecchio Testamento», James Ussher, arcivescovo di Armagh, correttamente fissò all’anno 4004 a.C. la creazione del mondo.

Non visse Adamo 930 anni? E, salvo errore, 982 Matusalemme, suo settimo discendente? Sta scritto che Noè, nipote di Matusalemme, al tempo del Diluvio universale, contava 600 anni. Un albero genealogico di dieci generazioni consente di calcolare non solo la data del Diluvio, ma, con apprezzabile esattezza, l’anno della creazione del mondo. Ussher pubblicò i suoi calcoli nel 1650, negli «Annals of the Ancient and New Testaments». Consentiva il dr. John Lightfoot, dell’Università di Cambridge, autore, nel 1642, di «Alcune nuove osservazioni sul libro della Genesi, per la massima parte certe, per il resto probabili, tutte innocue, strane e delle quali raramente si è sentito parlare». E a Lightfoot dobbiamo, grazie a i più approfonditi calcoli ai quali si dedica, il definitivo conteggio. Esso comporta che: «il cielo e la terra, il centro e la circonferenza, furono creati tutti insieme nello stesso istante, le nubi piene di acqua. Ciò avvenne e l’uomo fu creato dalla Trinità il 23 ottobre del 4004 a.C. alle nove del mattino».

Un calcolo che ebbe poca influenza sui filosofi che, da Leibniz e Vico a Montesquieu e Hume fino a Herder, posero i fondamenti di una elaborazione dell’idea di storia che affidarono alla coscienza critica degli europei dell’Otto e del Novecento. Ussher e Lightfoot cercavano la loro autorevolezza nella Bibbia. La legittimazione all’attributo di «storico» è garantita per noi, oggi, dai talk show giornalieri.