Ci voleva il fiuto da segugio di Gian Paolo Marchi, italianista emerito dell’università di Verona, per mettere i cacciatori sulla pista giusta. Il 13 novembre 2004, durante la seduta della locale Accademia di Agricoltura, Scienze e Lettere, Marchi dava lettura di un’importante comunicazione intitolata Dante e Petrarca nella Verona scaligera. Muovendo da pochi ma preziosi cenni della fluviale bibliografia dantesca, additava ai convenuti una lettera che nell’agosto del 1312 Cangrande della Scala aveva inviato al novello imperatore Enrico VII denunciando i gravi dissensi sorti in seno alla pars Imperii: Filippo d’Acaia, nipote dell’imperatore e vicario imperiale di Pavia, Vercelli e Novara, e Werner von Homberg, capitano generale della Lombardia, erano venuti alle mani durante la dieta ghibellina di Vercelli del giugno 1312 e solo il tempestivo intervento dei presenti aveva evitato un tragico epilogo. Cangrande manifestava all’Imperatore tutta la propria preoccupazione, invitandolo a riportare la pace e la concordia prima che altre membra del corpo imperiale si sollevassero le une contro le altre armate.

La lettera era già stata pubblicata un paio di volte in passato. Proveniva da una silloge di testi esemplari che il notaio e maestro di ars dictaminis (ossia l’arte di scrivere lettere) Pietro dei Boattieri, attivo a Bologna tra Due e Trecento, aveva consegnato a un codicetto confluito più tardi nel manoscritto Magliabechiano II IV 312 della Biblioteca Nazionale di Firenze. Nel proprio intervento Marchi rimarcò l’anelito alla pace che attraversava, analogamente, quella lettera e altri scritti danteschi, soprattutto l’epistola V ai signori d’Italia e più ancora l’esordio (tecnicamente l’arenga) di un atto di pace stipulato nell’ottobre del 1306 in Lunigiana tra il vescovo Antonio da Camilla e i marchesi Malaspina: è questo l’unico documento d’archivio del periodo dell’esilio che vede il poeta comparire in prima persona, in qualità di procuratore dei Malaspina. Lo stile decisamente sostenuto dell’arenga aveva fatto intravedere in passato a più di uno studioso l’impronta della mano dantesca: in un contributo del 2003 Carlo Dolcini vi individuò a colpo sicuro due precise citazioni dal primo e dal secondo libro delle Variae di Cassiodoro attribuendone senz’altro – e ragionevolmente – la responsabilità a Dante; intuizione confermata più tardi da una puntuale disamina di Emiliano Bertin (2005).

A tornare sulla vicenda mi ha indotto l’amicizia generosa del collega e medievista Gian Maria Varanini richiamando la mia attenzione su un manoscritto che si conserva alla Beinecke Library dell’università di Yale. Come per il Boattieri, anche in questo caso si tratta di una raccolta di testi esemplari assemblata nella Verona di primo Trecento da Ivano di Bonafine, notaio di autorevole famiglia cittadina e vicinissimo agli Scaligeri. La terza parte del codice ospita 88 epistule alcune delle quali esibiscono come mittenti Alboino e Cangrande della Scala. A quest’epoca non era raro vedere notai muoversi tra Savena e Adige, come prova il caso di Giovanni di Bonandrea, dettatore e rimatore bolognese a lungo a Verona come scriba di Alberto della Scala, il padre di Alboino e di Cangrande. A Bologna Giovanni fu incaricato di formare i cancellieri del Comune, cioè, fra l’altro, di insegnare loro a scrivere lettere ufficiali. Insomma Ivano di Bonafine, Bonandrea, Boattieri facevano il medesimo mestiere e frequentavano ambienti vicinissimi, e forse si scambiavano i testi. è naturale pensare che alcune lettere presenti nelle loro sillogi provengano direttamente dalla cancelleria scaligera, tanto più che nel novembre del 1310 proprio Ivano rogò la procura con cui il comune di Verona inviava il proprio rappresentante ad accogliere Enrico VII in arrivo in Italia.

Mentre rivedevo la stesura di una nuova biografia dantesca ormai quasi ultimata, ho ripreso in mano quella lettera di Cangrande all’Imperatore e mi è parso subito evidentissimo il richiamo ai passi delle due Variae di Cassiodoro incastonati nell’arenga del 1306: nella prima epistola, indirizzata per conto di re Teodorico all’imperatore Anastasio, Cassiodoro invocava la tranquillitas come sola custode della prosperità delle genti («Omni quippe regno desiderabilis debet esse tranquillitas, in qua et populi proficiunt et utilitas gentium custoditur»), madre benevola che giova alle arti liberali, estende le ricchezze degli uomini moltiplicandone incessantemente la stirpe, ne educa i costumi («Haec est enim bonarum artium decora mater, haec mortalium genus reparabili successione multiplicans facultates protendit, mores excolit»). La citazione torna nell’arenga del 1306 con qualche sapiente ritocco, per cui l’anafora giocata sui dimostrativi haechaec (‘questa … questa’) viene riformulata con un nesso relativo convertendo il participio multiplicans in un verbo finito: «que bonarum est artium decora mater, mortalium genus reparabili successione multiplicat, facultates protendit, mores excolit». Ma l’arenga, si diceva, ripropone anche il passaggio da Variae II xxxix in cui si afferma che la gloria del re consiste nella pacifica tranquillità dei sudditi («regnantis est gloria subiectorum otiosa tranquillitas»): il vescovo Antonio da Camilla e i Malaspina erano addivenuti a un accordo con la precisa intenzione di ottenere la pace per le proprie comunità («in eorum amicorum, sequacium et subditorum occiosa tranquilitate et pacis amenitate placida gloriantes» ‘compiacendosi della serena tranquillità e della amena pace di amici, sostenitori e sudditi’). Ebbene, nell’indirizzare l’epistola all’Imperatore Enrico VII, come già Teodorico ad Atanasio, Cangrande condensava i due passaggi del primo e del secondo libro delle Variae proposti – si badi bene – secondo la riformulazione dell’arenga: ricordava cioè come la «serena pacis tranquillitas, decora genitrix artium et alumpna, multiplicet et dilatet quam plurimum commoda populorum» (‘la serena tranquillità della pace, madre benevola e nutrice delle arti liberali, moltiplichi e dilati grandemente i beni dei popoli’ ) affinché «inviolatus permaneat status pacificus subiectorum» (‘lo statu pacifico dei sudditi rimanga inviolato’). Ecco ricomparire, non senza abili variazioni, gli stilemi appena analizzati: l’«artium decora mater» diventa «decora genitrix artium et alumpna», l’endiadi «sequacium et subditorum occiosa tranquilitate et pacis amenitate» si condensa nella «serena pacis tranquillitas» relegando alla fine del periodo il rinvio allo «status pacificus subiectorum» (e subiectorum, ‘dei sudditi’, era proprio il termine di Cassiodoro); il participio «multiplicans» si converte, come già nell’arenga, nel verbo finito «multiplicet»; il «mortalium genus» e le sue «facultates» nei «commoda populorum».

Ma c’è di più. All’invocazione della pace segue, nell’epistola di Cangrande, l’esplicito richiamo all’ammonimento di Gesù secondo il quale «Ogni regno diviso in se stesso va in rovina» (Mt 12,25; Lc 11,17): «ut lectio testatur divina, illud imperium, illud regnum, quod divisis voluntatibus intercisum in se non continet unionem, desolationem incurrit». Anche nella Monarchia (I v 8) Dante additò la necessità di un unico re ai fini di una pacifica convivenza: «Si denique unum regnum particulare, cuius finis est is qui civitatis cum maiori fiducia sue tranquillitatis, oportet esse regem unum qui regat atque gubernet: aliter […] regnum in interitum labitur, iuxta illud infallibilis Veritatis ‘Omne regnum in se divisum desolabitur’» (‘Infine, se prendiamo in considerazione un singolo regno, il cui scopo è lo stesso della città, ma con maggiore fiducia nella sua tranquillità, occorre che esista un solo re che lo regga e lo governi; altrimenti […] il regno stesso va in rovina, secondo il detto della Verità infallibile: ogni regno diviso al suo interno andrà distrutto’): tornano dunque le parole chiave del regnum e della tranquillitas in sequenza con la citazione evangelica. Ma il binomio pace e tranquillità compariva già, quasi un’ossessione che perseguitasse il poeta nel suo penoso esilio, nell’epistola prima che Dante scrisse a nome dei fuoriusciti fiorentini nella primavera del 1304: riponendo nel cardinale paciaro Niccolò da Prato tutte le proprie speranze per un ritorno in patria, Dante lo invitava a irrigare la tormentata Firenze «con il sonno della tranquillità e della pace» («illam diu exagitatam Florentiam sopore tranquillitatis et pacis irrigare velitis»). E infine – ma si potrebbe continuare – nella lettera di Cangrande, i malvagi responsabili delle discordie imperiali vengono definiti «vasa scelerum», sintagma che non ha sostanziale riscontro nella latinità medievale indicizzata ma che non può non richiamare il «vasel d’ogni froda» affibbiato a frate Gomita in Inferno XXII.

Certo, nessun filologo anche mediamente preparato ignora che le Variae Cassiodoro erano testo molto diffuso nel Medioevo. Certo, la consistenza dei richiami intertestuali dovrà accompagnarsi a capillari verifiche sulle concordanze dantesche e sui più ampi corpora della latinità medievale; controlli doverosi andranno compiuti sul ritmo della prosa; soprattutto occorrerà procurare una nuova edizione della lettera riesaminando il manoscritto. è materia che darà lavoro nei prossimi mesi. Ma a mio avviso tutto ciò non farà altro che confermare quanto appare chiaro sin da questi primi assaggi: dovendo scrivere una lettera delicatissima all’imperatore Enrico VII, il suo vicario Cangrande della Scala si affidò alla penna di Dante Alighieri, l’unico che in quel momento a Verona poteva produrre uno stile tanto elevato. E nello stendere quel testo così importante Dante recuperò la citazione incastonata sei anni prima nell’arenga lunigianese, ma la modificò e la arricchì come solo lui avrebbe potuto fare, secondo lo stile di quell’alto dittare che sempre innervò la sua prosa latina.

Il recupero della lettera produce una serie di conseguenze rilevanti sul piano biografico. Cadono in un colpo solo le ipotesi – formulate forse un po’ troppo frettolosamente – che tra 1312 e 1316 volevano Dante a Pisa o in Lunigiana, o addirittura lo immaginavano negli attendamenti imperiali tutto preso dalla stesura della Monarchia. Nell’estate del 1312 Dante si trovava già a Verona e se la Monarchia fu scritta a quest’epoca, cosa che appare davvero improbabile, fu scritta sotto l’occhio vigile di Cangrande. Andrà riesaminato il profilo culturale dello stesso Cangrande, eccessivamente appiattito, negli interventi più recenti, su una prospettiva che ne valorizza soprattutto i risvolti amministrativi e militari, a scapito forse di altri aspetti ugualmente importanti. Acquistano nuovo rilievo le affermazioni dell’umanista Leonardo Bruni, l’ultimo ad avere maneggiato autografi di Dante: nella propria biografia del poeta Bruni affermava chiaramente che Dante non si trovava in Toscana allorché Enrico VII preparò l’assedio di Firenze (settembre 1312); di più citava di prima mano lettere di Dante spedite da Verona e c’è da chiedersi donde traesse l’indicazione topica se non proprio dalle lettere medesime. E poiché nel gennaio del 1320 Dante era a Verona per pronunziarvi la Questio de aqua et terra anche ci sarà da chiedersi se il soggiorno non durasse proprio da quel lontano 1312, il che spiegherebbe l’altissimo elogio riservato a Cangrande nel canto XVII del Paradiso, l’encomio più nobile dedicato dal poeta a un vivente. Insomma, un capitolo intero della biografia dantesca avrà bisogno di una robusta riscrittura.