Sta prendendo forma una nuova figura di direttore creativo antidivo. Dopo aver celebrato il creativo marketing e business oriented, nato in opposizione al creativo capriccioso con lifestyle hollywoodiano e aereo privato , ora la moda si orienta verso un personaggio che mantiene le redini della creatività rimanendo dietro il paravento del valore del marchio che disegna. I segnali, anche se diversi, si possono trovare in alcune nomine, recenti e meno, alle direzioni di grandi marchi, tra cui Nicolas Ghesquière da Louis Vuitton, Hedi Slimane da Saint Laurent e Alessandro Michele da Gucci sono i casi più evidenti.

Nel sistema della moda del secolo scorso, le varie Coco Chanel, i più giovani Yves Saint Laurent e i rispettivi coetanei traevano la propria forza da se stessi, dagli abiti che disegnavano e dalla potenza della loro immaginazione in un mondo che si muoveva ma non correva. Per alcuni, soprattutto per chi è a capo del proprio impero di moda e di business, quel sistema regge ancora e, divi o non divi, nulla è cambiato.

Lo stilista divo è, invece, una figura recente ed è stata creata dal sistema per dare una personalità ai marchi spersonalizzati. Al di là di Karl Lagerfeld, che deve a Chanel la sua eternità, il vero stilista divo è nato nel 1994 con la nomina di Tom Ford a creative director di Gucci. Espressione di una creatività condizionata dal product placement, Ford è stato il capostipite di quei direttori creativi che, negli ultimi vent’anni, hanno pensato alla vendibilità del prodotto più che alla sua compatibilità con il senso della moda. È lui il primo a trasformare un marchio di pelletteria e foulard in un marchio della moda, inventando dal nulla uno stile dalla sensualità spregiudicata ma non volgare, e gli ha dato il suo volto.

Marc Jacobs da Vuitton ha funzionato allo stesso scopo, costruendo la moda di un marchio che, prima di lui, produceva solo borse e valigie. Diverso il caso di Nicolas Ghesquière che, costruendo un percorso di stile proprio, è riuscito a reinventare Balenciaga fino a farlo coincidere con se stesso. Presto il posto di Jacobs da Vuitton, però, la personalità di Ghesquière sembra essere stata risucchiata dalla potenza globale del brand, tanto che nessuno si riferisce al marchio con il nome del designer.

Perfino Hedi Slimane, che stagione dopo stagione rilegge la rivoluzione degli Anni 60 e 70 di Saint Laurent con una propria visione forte, resta un po’ in secondo piano e fa quasi fatica a salutare il pubblico dopo le sue sfilate, applauditissime. Ma è la più recente nomina di Alessandro Michele da Gucci, dopo l’uscita di Frida Giannini, che segna l’evidenza di questa che potrebbe essere una svolta. Michele sembra essere l’antidivo per eccellenza, lavora al riposizionamento del marchio senza sollevare clamore su stesso. In sole due sfilate, ha reso evidente il nuovo progetto del marchio – un palese ritorno a una moda di contenuti creativi e non solo di mercato – senza sovrapporre la sua immagine a quella del brand e badando a conservare lo stesso stile di vita precedente all’incarico.

Nell’impossibilità che nasca un marchio forte con il nome di chi lo disegna, forse sarà questa nuova dimensione antidivistica del creativo che potrà trasportare finalmente la moda in questo Terzo millennio in cui sta vivendo da quindici anni con la testa girata verso i vizi del secolo precedente.

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