Le recenti partite della nazionale di calcio, hanno deluso ogni facile aspettativa e forse è ora di fare un bilancio dei 120 anni di calcio in Italia dal 1898 a oggi. Quell’anno,mentre a Milano Bava Beccaris reprimeva nel sangue la rivolta popolare e operaia, a Torino in un negozio di cravatte e camicie si costituiva la Federazione italiana Foot-Ball, come veniva chiamato il calcio di allora, diventata nel 1909 Figc. Partendo dai numeri potremmo anche ritenerci soddisfatti di questi 120 anni, se il calcio italiano, in mano a dirigenti incapaci e inerti di fronte alla necessità di un cambiamento, pur di sopravvivere a se stessi, non si fosse preso beffa di questo anniversario mancando la qualificazione ai campionati mondiali 2018 in Russia.

CAMPIONI DEL MONDO
Quattro volte campioni del mondo è un buon risultato, in media una Coppa del mondo conquistata ogni trenta anni, due sotto la guida di Vittorio Pozzo quando la competizione era alle prime edizioni, nel 1934 e 1938, vittorie prontamente sfruttate dal fascismo come vetrina di propaganda sul piano internazionale, e per il calcio italiano un’ autorevole affermazione in Europa, fino ad allora predominata dal calcio della scuola danubiana, e due più recenti nel 1982 e nel 2006. Da quel 1898 alla Grande Guerra, la durata del campionato di calcio si limitava dapprima a due mesi, poi a quattro e solo nel 1910 il campionato passò a otto mesi, acquistando una sua dignità. L’ingresso per assistere a una partita costava una lira.

LIBRO PAGA
Il 1910 rappresentò uno spartiacque perché fu istituito il libro paga per i dilettanti e i professionisti del calcio, spia della rapida diffusione che stava prendendo il foot-ball, un aspetto che moltiplicò le scommesse e la presenza a bordo campo di spregiudicati broker, che per garantirsi il massimo impegno dei calciatori davano una percentuale delle scommesse all’autore di ogni gol. Nel 1911 durante il derby Genova – Sampdoria ( allora denominata Andrea Doria), i broker raccolsero complessivamente 11 mila lire di scommesse.
Oggi, in tempi di crisi della politica e delle sue varie formedi aggregazioni partitiche, è in corso una mutazione epocale e sociale del calcio, che da produttore di ideologia è diventato produttore di socialità, dagli stadi dei grandi e piccoli centri ai bar di provincia, invece il livello del calcio prodotto dalla Nazionale vive una profonda crisi, perché mancano centri di formazione giovanile, che portino avanti politiche di alta formazione. I giovani calciatori non trovano spazio nelle prime squadre e sono costretti lunghe attese in panchina fino a quando ripiegano sulle serie minori, nelle quali il calcio è meno stressante, ma anche di livello inferiore e non sempre consente il salto di qualità.
Il punto dolente delle politiche della Figc negli ultimi anni, al di là dei dirigenti che si sono alternati alla presidenza della Federcalcio, è proprio il calcio giovanile: i 37 centri sparsi in Italia non funzionano e costituiscono un aggravio economico notevole rispetto ai risultati ottenuti fino a oggi. Lo sanno sia quelli che si sono succeduti alla presidenza della Federcalcio sia coloro che nel Consiglio federale della Figc rappresentano l’Associazione allenatori, come Renzo Ulivieri, e l’Associazione italiana calciatori come Damiano Tommasi. Urge un cambiamento di rotta e non basta portare i centri federali territoriali, che il linguaggio retorico del calcio chiama pomposamente «accademie» del calcio giovanile, dai 37 attuali ai 200 nei prossimi cinque anni, investendo ingenti risorse. I modelli cui ispirarsi non mancano, dalla «cantera» spagnola alle scuole calcio federali della Germania, alla Francia multietnica, si tratta di stabilire, però, quale spazio avranno nelle squadre di serie A i migliori giovani calciatori che usciranno da quei centri, visto che le grandi del calcio italiano sono in mano alle multinazionali e i proprietari vogliono far giocare le star del calcio mondiale per avere un ritorno di immagine su scala globale, perché da tempo il capitalismo mondiale ha scelto il calcio per affermare il proprio prestigio.

ALLENATORI
Si pone un altro problema per il calcio italiano, quello di base, la formazione degli allenatori che ogni sabato e domenica hanno a che fare con 828 mila ragazzini, che partecipano ai campionati promossi dalla Federcalcio e giocano sui campi spelacchiati di periferia. La gran parte dei mister non sanno stare in panchina, impongono schemi di gioco perfino ai ragazzini di sei anni, urlano, sbraitano, accompagnano i loro gesti scomposti con parolacce, vogliono vincere a tutti i costi, spesso provocano danni indelebili alla psiche di quei bambini, e soprattutto nessuno provvede alla loro formazione didattico-pedagogica, vitale per il calcio italiano di base, che porta, come la base di una piramide a quello di vertice.
Quegli allenatori scomposti e dal linguaggio volgare, sonotanti, una parte considerevole degli 80 mila complessivi che siedono sulle panchine italiane dalla terza categoria fino alla serie A, pagano la loro quota annuale alla Figc e nessuno spiega loro che forse per ottenere risultati è importante depotenziare tutta quella carica negativa di aspettative, che precede ogni incontro di calcio: la vittoria a tutti i costi. In Italia senza la vittoria, circa un milione di ragazzini non si sente riconosciuto dai genitori e dai propri allenatori.

LA SCUOLA
Vi è un altro aspetto che la Federcalcio dovrebbe affrontare, la scuola, il luogo dove circa 8 milioni di studenti dai 6 ai 19 anni si ritrovano ogni giorno. Il Settore Giovanile e Scolastico della Figc, così denominato fin dalla fondazione perché avrebbe dovuto occuparsi anche del calcio a scuola, non attua nessuna politica per la scuola. Nei tornei scolastici, quelli fatti di partite contro la classe di fianco alla propria, i ragazzi non fanno altro che scimmiottare il peggio di quello che accade sui campi di serie A e soprattutto ciò che vedono la domenica in Tv, perché oggi il Bar Sport Italia è la più grande agenzia educativa del nostro Paese.