Sono ormai un gruppo musicale affermato. Dopo una lunga gavetta e un apprendistato nelle radio libere e di, moderato, «movimento» bolognese «Lo stato sociale» calca le scene di mezza Europa, divertendo anche il serioso e convenzionale pubblico di San Remo. Hanno un amore segreto, quello della narrazione. Hanno sceneggiato una graphic novel (Andrea, disegnata da Luca Genovese e pubblicata da Feltrinelli) e scritto un romanzo (Il movimento è fermo, Rizzoli). Sono un gruppo ma la firma che appongono a questo nuovo romanzo di formazione è collettiva. Il titolo è Sesso, droga e lavorare, storie di ordinaria precarietà lavorativa e sentimentale, cioè esistenziale (Il Saggiatore, pp. 268, euro 17).

È la storia di un bolognese, laureato senza grandi pretese. Un piacione che combina guai; gran rimorchione, che usa vari tipi di sostanze chimiche non proprio legali senza però farsi trascinare in nessun gorgo di perdizione. Ma quello che vuol mettere in scena il libro è il rapporto con il lavoro, divenuto una risorsa scarsa e per questo molto ambita, perché garantisce reddito e la prospettiva di una tranquillità economica che nessuno può garantire, neppure la famiglia. Quella del protagonista è classificabile come ceto medio. La madre produce pasta all’uovo, che vende con moderato successo. Il padre è un professionista come tanti, fortemente detestato dal giovane.

UNA FAMIGLIA dunque normale, dalla quale l’evasione è auspicabile. Serve però un lavoro. La narrazione diviene l’ennesima discesa negli inferi della precarietà, dei salari da fame, dei soprusi dei padroncini, della negazione sistematica dei diritti del lavoro. Niente di nuovo, rispetto a quanto raccontato da altri scrittori. Non è neppure una novità il disincanto, l’indifferenza del protagonista rispetto a quanto si muove intorno a lui. La politica è a portata di mano, ma il protagonista fa di tutto per scansarla.

È interessato solo alle notti di sesso occasionale e senza impegno, allo sballo da roba, allo stordimento di un’esistenza da dissipare. Ovviamente con leggerezza e senza grande pathos. Potrebbe essere archiviato come un romanzo giovanilista, ma un’idea irrompe. La saggistica la qualifica come «governamentalità algoritmica»; più prosaicamente è che il comando sul lavoro si fa impersonale, essendo scandito da applicazioni informatiche e algoritmi, nonché da agenzie del lavoro interinale, che assegnano compiti e contratti che vanno dalla giornata a una manciata di mesi. Il protagonista ne viene risucchiato. La sua vita è ormai scandita da app, contratti usa e getta e salari che consentono a mala pena di comprarsi una birretta ogni tanto.

PROVA A FARE il grande salto, comprandosi un bar. Ma non è proprio il tipo da diventare un padroncino di se stesso che si autosfrutta per un reddito risibile, ma formalmente autonomo. Meglio fare carriera nell’agenzia interinale, che alla fine si impone come soggetto panistituzionale, svolgendo infatti una funzione politica a livello globale, sostituendosi cioè ai governi nelle politiche di avviamento al lavoro. Su questo crinale il romanzo diventa un thriller, perché entrano in campo sistemi esperti, intelligenza artificiale, faccendieri, un rodato dispositivo mediatico di promozione del lavoro precario e un gruppo di hacker che cercano di opporsi.
Il giovane ha ormai compiuto i quarant’anni.

È diventato genitore, anche se è evaso anche da questa famiglia. Riflette senza grande convinzione sulla sua vita dissipata. E qui, sulla soglia di una maturità vagheggiata, cerca di riavvolgere il nastro delle sue speranze e delle tenui velleità politiche di quando era studente. Ma questa è un’altra storia, che l’ordinaria precarietà esistenziale restituisce come un nodo che attende di essere sciolto per farlo diventare il nodo scorsoio che va messo al collo di chi trasforma la vita in un deserto del reale.