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Lo stato maggiore frena i tamburi di guerra. E l’ira del capo

Lo stato maggiore frena i tamburi di guerra. E l’ira del capoSilvio Berlusconi

Forza Italia Brunetta e Romani Minacciano. Ma a preoccupare Gianni Letta e Confalonieri è la reazione di Berlusconi dopo la decisione dei giudici

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 5 aprile 2014

«Ultima chiamata. O Renzi cambia rotta o addio»: i ragazzi del Mattinale forzista sono perentori. E se fanno la voce grossa loro, il capo dei deputati Brunetta si sente in obbligo di ruggire più forte: «Di Renzi non ci fidiamo più. Il provvedimento sulle Province è un imbroglio e quella è la cifra del governo». Paolo Romani, il collega che guida i senatori, invece è un tipo pacato. Ma nella sostanza viaggia nella stessa direzione, anche se per motivi diversi: segnala le «difficoltà» che le riforme «potrebbero incontrare» se si dovesse arrivare a «una situazione di non agibilità». In soldoni, ove l’affidamento del reo ai servizi sociali non si dimostrasse una burletta.

A dare ascolto ai tamburi di guerra, la sorte della riforma del Senato si direbbe segnata. Ma nessuno li prende troppo sul serio, almeno per ora. Il vero stato maggiore dell’ex sovrano, quelli la cui parola conta davvero, la pensa in maniera opposta, e per una volta i falchi volteggiano con le colombe: Confalonieri e Letta, ma anche Verdini e Ghedini, e naturalmente la famiglia. Frenano le ire del condannato, gli impediscono colpi di testa, preparano già una sorta di cordone sanitario da far scattare la sera del 10 aprile. Se la decisione dei magistrati di sorveglianza non sarà quella auspicata, è garantito che, a botta calda, il capo darà di matto, pronto a far saltare tutti i banchi. Bisogna essere pronti a tenerlo buono fino a che l’ira non sbollirà e troveranno spazio i saggi consigli di chi vede nell’asse con Renzi l’ultima possibile ancora di salvezza. Se non per il partito, ormai prossimo al naufragio, almeno per l’azienda.

E’ un film già visto infinite volte. Cambiano solo i ruoli dei comprimari, perché in questa occasione, anche in nome dell’asse privilegiato con l’ex sindaco, Denis il Lupo balla con le pecore lettiane. Però, come sempre, l’ultima parola spetta solo al capo ancora indiscusso, e non è affatto detto che alla fine non prevalgano gli umori bellicosi. Matteo Renzi se ne rende conto perfettamente, e lo ha dimostrato in modo evidente nell’intervista a Lilli Gruber di giovedì sera. Sa di rischiare, ma è convinto di avere ancora in mano le carte vincenti.
La prima si chiama Giorgio Napolitano. Sulla disastrosa proposta di riforma del Senato il presidente aveva tutti i dubbi del caso e forse anche qualcuno in più. Ma alla fine ha deciso di sostenere comunque il governo, considerato l’ultima diga contro la barbarie a 5 stelle. Solo i maliziosi per mestiere possono ipotizzare che nella decisione c’entri qualcosa l’impazienza con cui la coppia che dimora sul Colle aspetta il momento del trasloco, che necessariamente potrà arrivare solo dopo la prima approvazione della riforma.

La seconda carta su cui conta l’ex sindaco è, tanto per cambiare, la pochissima voglia dei senatori di sloggiare subito, causa improvvisa crisi di governo. Terreno fertile per manovre sia all’interno della pochissimo convinta maggioranza che dentro la stessa opposizione. La Lega, per esempio, potrebbe fare da stampella alla riforma del Senato se Renzi la dividesse da quella del Titolo V, che per i padani è invece indigeribile. Roberto Calderoli sarebbe propenso ad accordarsi così, ma non è facile che Matteo Salvini conceda il semaforo verde. Lo schieramento morbido di Verdini comporta poi la probabilità che un certo numero di senatori azzurri, forse determinanti, si assentino dall’aula al momento giusto.

Però perché queste vie secondarie siano davvero percorribili bisogna che almeno il partito del premier sia unito. La vera spina nel fianco di Matteo Renzi è quella: il dissenso che viene da sinistra, non quello forzista. Ecco perché la ministra Boschi torna a scagliarsi con violenza degna di miglior causa contro «i professori che da trent’anni bocciano le riforme». Una classica sparata fuori misura e inopportuna che finirà per rendere molto più difficile la già ardua missione di riportare all’ovile i 22 senatori Pd firmatari del ddl Chiti. Anche perché molto dipenderà dalla presenza o meno di una sponda a sinistra, cioè dalla tenuta di Sel e degli ex grillini passati al gruppo misto. Se mai avessero avuto dubbi, e non ne avevano, l’ennesima gaffe della ministra li avrebbe dissipati.

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