Tutto nasce forse dal mal d’amore. E se anche la storia sentimentale è ormai alle spalle, rimane la malinconia della separazione, il senso di perdita che ogni abbandono comporta. A Venezia, città neoromantica per eccellenza, l’artista islandese Ragnar Kjartansson ha fatto risuonare sulle acque delle Gaggiandre una melodia triste, a bordo di una barchetta di legno che originariamente era un peschereccio di Reykjavik degli anni Trenta. Una performance dal titolo bizzarro, S.S. Hangover, ovvero concertino del dopo-sbornia.

Nel 2009, sempre Ragnar, aveva rappresentato alla Biennale l’Islanda, il suo paese, «occupando» il piano terra del Palazzo Michiel: qui ha messo in scena, per sei mesi, l’ossessione creativa di un pittore che disegnava senza sosta il ritratto dello stesso modello, l’amico Páll Haukur Björnsson, che gironzolava in costume da bagno, dedito alle sigarette e alla birra. Ora, questo islandese che cerca di riprodurre il ritmo decadente dell’esistenza, mescolando vari linguaggi espressivi, è sbarcato a Milano, presso l’HangarBicocca, modificando lo spazio con la sua installazione a più schermi e la sua specialissima colonna sonora.
The Visitors, a cura
di Andrea Lissoni e Heike Munder (direttrice del Migros Museum für Gegerwartskunst di Zurigo) è, infatti, una immersione totale in un mondo parallelo. Quasi una visione ipnotica – d’altronde, i suoi riferimenti cinematografici sono le sequenze psicoanalitiche di Visconti, Ingmar Bergman, Sofia Coppola, cui va aggiunto, new entry, il Sorrentino cool della Grande Bellezza – che si potrà godere fino al 17 novembre.

Il coinvolgimento dello spettatore è assoluto, un viaggio fisico senza più coordinate spazio-temporali. Prima lo si inghiotte nel buio pesto, poi lo si inchioda al film per un’ora. Alla fine, lo si espelle, inondandolo con la luce improvvisa di una sorta di alba (o tramonto) che i musicisti vanno a cercare lungo le rive del fiume, in fila indiana, rilassandosi dopo il concerto accordato con fatica. Per quel «rito di passaggio» da uno stato all’altro, è necessario un distacco, un allontanamento. Questa volta, è la separazione dalla casa-pancia che ha ospitato prima le voci solitarie, poi le note collettive.
La cosa più strabiliante del film frammentato è proprio la sua location. Ragnar è andato a girare alla Rokeby Farm, nell’Upstate New York, lungo il fiume Hudson, grande dimora antica abitata da generazioni dalla famiglia Astor. Un set pieno di presenze/assenze, che non disdegna neanche gli umori degli sciamani, piombati direttamente sulle telecamere piazzate nelle camere. L’artista racconta di aver cercato le scuse più improbabili per tornarci, era come sotto un incanto, sapeva che lo spirito della casa lo stava chiamando.

Su nove diversi schermi, i musicisti – fra cui le due sorelle islandesi della celebre band Mùm e Kjartan Sveinsson, ex tastierista dei Sigur Rós – suonano i loro strumenti e provano, ognuno per proprio conto, la stessa melodia, Feminine Ways, una ballata intrisa di nostalgia. Dalla biblioteca al bagno (dove c’è l’artista stesso immerso nell’acqua della vasca mentre prova le sue note), le stanze si «accordano» l’un l’altra fino a confluire in un’unica canzone, struggente, che prende le mosse dai versi di una poesia. Non un componimento qualunque, ma quello di Ásdis Sif Gunnarsdóttir, ex moglie di Ragnar Kjartansson che lascia così una traccia di quella «bitter end» (amara fine). Lo strappo di un amore, però, dà inizio a una nuova sintonia, a un possibile futuro che si conquista intorno alla reiterazione degli arrangiamenti, alla persistenza dell’intimità, all’armonia ritrovata. L’installazione di Kjartansson è un po’ una metafora di una convivenza di «anime elette», idea anch’essa assai decadente.
Il flusso ininterrotto del tempo (non solo interiore) aiuta non poco a superare i blocchi emotivi: nell’arco di una giornata bisogna giungere a destinazione, operare una cesura col passato e il ricordo.

Un Ulisse joyciano della musica, questo The Visitors. Il titolo richiama l’ultimo album degli Abba. Anche qui, la scelta non è casuale. «Sono uno dei miei gruppi preferiti – confessa Ragnar – Interpretano la solitudine, il divorzio, l’atmosfera di un’epoca che se ne va…»

L’approdo dell’artista islandese all’HangarBicocca, con la sua opera totale, invita a riflettere sugli incroci di destini e sulle traiettorie imprevedibili che, a volte, prende la vita. La prossima mostra allo spazio Pirelli sarà dedicata al tedesco Dieter Roth. Era un amico del nonno di Ragnar e oggi lui è in contatto stretto con il nipote Oddur Roth, poeta e artista, «un personaggio che sembra uscito dalle saghe islandesi». Da piccolo Kjartansson giocava con i libri di Dieter, un idillio che venne spezzato dalla rottura dell’amicizia fra i due nonni. «Ma ora loro due sono morti e sta a noi eredi continuare l’amicizia…»
Insieme ai fantasmi del passato, tornano anche i paesaggi dell’Islanda natìa? «Nell’anima forse, ma non certo in modo banale come fossero le rovine dei Romani in Italia…»