Dall’atmosfera ovattata in cui la pandemia ha costretto il dibattito politico giungono segnali sotterranei di uno scontro, forse il più duro dell’ultimo quarto di secolo. Le macerie della crisi sanitaria, economica e sociale hanno lasciato una densa coltre di nebbia. Quando questa si poserà, i termini di questo scontro appariranno più chiari, richiamando i partiti e le forze sociali a scelte radicali, dettate dall’estrema semplificazione indotta dalla crisi stessa. Due schemi divergenti e mutuamente escludentisi si affacceranno sulla scena: da una parte un modello di ripresa privatistico, guidato dagli interessi del profitto e della rendita e imperniato sull’impresa privata; dall’altra un modello di ripresa neo-socialista, guidato dagli interessi del lavoro e imperniato sullo Stato imprenditore.

I due modelli implicano assi divergenti lungo i quali strutturare la ricostruzione della nostra realtà economica, i quali a loro volta implicano opzioni diverse di natura sociale. Che nel quadro dell’attuale cornice governativa la battaglia possa considerarsi, per quanto ne possiamo capire, ancora aperta, rappresenta un punto di partenza di non poco conto. Qualsiasi altra potenziale combinazione politica disponibile in Italia avrebbe fatto e farebbe scivolare il piano inclinato delle scelte su di una ricostruzione imperniata sul modello privatista.

Conosciamo bene il funzionamento del modello privatista, poiché è quello operante, incontrastato, da anni in tutto l’Occidente. Conosciamo la filosofia generale che vi sta dietro, e cioè che tocchi all’impresa privata regolare le dinamiche salariali, occupazionali ed in ultima istanza sociali del Paese nel suo complesso. E conosciamo bene i meccanismi che lo sorreggono: sgravi fiscali, deregulation ambientale ed urbanistica, deroghe ai contratti nazionali del lavoro, riduzione dei diritti e aumento della precarietà. È quanto chiesto, con ben poca inventiva, dal neoeletto presidente di Confindustria Bonomi, in una recente intervista che ha fatto registrare un attacco (preventivo) al Governo di inusitata violenza e chiarezza.

Per smentire l’efficacia di questo tipo di ricette basterebbe ed avanzerebbe, se non altro, la semplice esperienza: sarebbe suicida proseguire su di una strada che ci ha portato dove oggi ci troviamo, con la crisi sanitaria che non ha fatto altro se non esasperare tendenze già in atto da anni. Povertà e precarietà diffuse, malfunzionamento e sottofinanziamento dei servizi pubblici essenziali, debito pubblico alle stelle che tuttavia non produce ripresa economica, assorbito com’è dagli interessi pagati ai grandi gruppi finanziari, dalla rendita e dalla speculazione.

La strada alternativa è la strada dell’inversione totale di tendenza, la strada che da più parti comincia ad essere conosciuta come quella dello Stato imprenditore. In quale direzione e su quali settori dovrebbero essere rivolte le “attenzioni” di questa imprenditorialità pubblica? Ovviamente e prima di tutto sui monopoli naturali e sui servizi essenziali per i cittadini. Dovrebbe poi servire da leva per favorire l’innovazione tecnologica e la riconversione ecologica della nostra economia. Ed infine dovrebbe essere piegata a combattere le piaghe della disoccupazione, della sottoccupazione, del precariato e del lavoro nero.

Gli effetti positivi i si riscontrerebbe in tre principali direzioni: un nuovo sviluppo del Paese basato sull’innovazione, sull’ambiente e sulla domanda interna di beni e servizi anziché sul continuo ribasso dei salari nella corsa all’esportazione; una riduzione del peso relativo della rendita – in una fase di crisi degli investimenti e degli sbocchi commerciali, non si può obbligare il capitale privato a non riversarsi nella speculazione e nel lusso, quindi deve essere lo Stato ad investire direttamente; in una ripresa della piena e buona occupazione, con salari adeguati e prendendo di petto la questione sempre più urgente della diminuzione degli orari di lavoro.

In questo ambito le nostre classi dirigenti sono chiamate ad un cambio di prospettiva di natura copernicana: lo Stato non deve essere chiamato mediante chissà quale stratagemma burocratico alla creazione di lavoro, ma deve essere chiamato a smettere di creare disoccupazione, come fatto nell’ultimo trentennio. Con un tasso di disoccupazione giovanile intollerabile, un paese da ricostruire ed una necessità sistemica di trovare sbocco alle crescenti specializzazioni dei giovani, lo Stato ha il compito di lasciare che queste energie si mettano al servizio della comunità e del bene comune, con le adeguate garanzie contrattuali e adeguati stipendi e salari. Mantenere lo status quo comporterebbe la più artificiale delle operazioni politiche.

La scelta tra le due ricette, così agli antipodi l’una dell’altra, non può essere demandata alla tecnica. Esse comportano divergenze radicali, comportano una lotta tra interessi sociali divergenti. Comportano insomma il ritorno della