È difficile che ci si possa accontentare delle rassicurazioni ufficiali fornite ieri da Cesar Alierta, presidente di Telefonica, il gigante spagnolo delle telecomunicazioni, al premier Enrico Letta. Alierta vuole conquistare Telecom Italia, e di fronte alle (tardive) preoccupazioni governative, il patron della principale società europea di Tlc ha garantito a Letta che Telecom Italia rimarrà una società italiana.
Alierta ha aggiunto che l’occupazione verrà mantenuta e che verranno realizzati sufficienti investimenti per la rete italiana. Del resto sarebbe stato strano che dicesse altrimenti. Ma nonostante le rassicurazioni, il destino della principale azienda italiana di telecomunicazioni è ugualmente e fortemente a rischio.
Telecom Italia rappresenta la parabola esemplare del declino del capitalismo italiano, delle privatizzazioni fallite e della svendita delle principali società nazionali ad aziende estere. Per contrastare il declino urge allora l’intervento pubblico e il controllo dei lavoratori, anche considerando che Telecom naviga in un mare di debiti ma non è una impresa decotta come Alitalia.
È noto che i soci finanziari italiani Intesa Sanpaolo, Mediobanca e Generali, vogliono svendere il controllo di Telecom Italia a Telefonica. Tuttavia il percorso è aspro, non solo e non tanto perché il debole governo italiano (come sempre schierato a favore delle banche nazionali) cerca garanzie, ma soprattutto perché un altro potente azionista di Telecom, Marco Fossati, forte del suo 5% circa di azioni, contesta l’offerta di Telefonica e chiede a termini di legge di sciogliere il consiglio di amministrazione attuale e di convocare una nuova assemblea straordinaria della società. Fossati è molto probabilmente appoggiato da altri potenti ma finora sconosciuti partner esteri o nazionali.
Inizia quindi una incerta guerra di borsa per il controllo di Telecom. Non si sa ancora chi vincerà. Telecom però non è una azienda come le altre: è un’infrastruttura strategica sul piano industriale e tecnologico per lo sviluppo di tutta l’economia italiana. Ed è molto più importante (e più sana) di Alitalia. Anche per ragioni di sicurezza nazionale (il caso Datagate insegna!), non deve cadere completamente in mani straniere.
Per salvare e sviluppare Telecom, spolpata dai capitalisti privati nostrani, è urgente l’intervento pubblico. Occorre anche il controllo da parte dei lavoratori, come accade già nella «virtuosa» Germania, dove Deutsche Telekom è quotata in borsa ma è partecipata anche dallo stato e i lavoratori siedono negli organi direttivi.
La storia di Telecom Italia è nota. Fino agli anni ’90 era una delle migliori aziende pubbliche nazionali. Nel 1997 è stata privatizzata dal governo Prodi per entrare nell’euro. Da allora è stata preda di azionisti privati che hanno acquistato di volta in volta il controllo senza sborsare grandi capitali propri (vedi Fiat) e grazie ai debiti caricati sull’azienda stessa (vedi Colaninno, i padroni di «razza padana», e Tronchetti Provera). Telecom è diventata sempre meno internazionale e competitiva e sempre più carica di debiti. In borsa capitalizza solo circa 11 miliardi di euro ed è diventata possibile bottino di ogni predatore, come dimostra il recente intervento speculativo del fondo Blackrock. La società però non va male: ha ampi margini di profitto operativo ed è presente nei mercati dinamici di Brasile e Argentina ma ha bisogno di ricapitalizzarsi per sganciarsi dalla zavorra dei debiti. Intesa Sanpaolo, Mediobanca e Generali, dopo aver subito gravi perdite acquistando le azioni a caro prezzo da Tronchetti Provera, hanno deciso di sfilarsi cedendo il pacchetto di controllo per un piatto di lenticchie (circa 850 milioni) a Telefonica, già azionista di Telecom. La transazione avverrà fuori mercato, direttamente tra le parti, e gli azionisti minori rimarranno con il cerino in mano, come si conviene a un parco buoi.
Il senatore Massimo Mucchetti, presidente della commissione Industria, ha promosso la riforma della legge sull’Opa in modo che chi avrà, come Telefonica, il controllo di un’azienda sia obbligato a rivolgere la sua offerta a tutti gli azionisti. La proposta è sacrosanta: ma occorre un intervento più drastico. Anche perché due zoppi non fanno un buon corridore. Telefonica ha 66,8 miliardi di debiti e Telecom ha un debito di circa 40 miliardi. Il colosso spagnolo per diminuire i debiti quasi certamente cederebbe la pregiata parte internazionale di Telecom (Brasile e Argentina) guadagnando miliardi. Un pessimo affare per gli italiani da tutti i punti di vista.
Il problema principale è che nell’economia della conoscenza la diffusione di reti a larga banda rappresenta il fattore assolutamente necessario (anche se non sufficiente) per competere nell’economia immateriale. Per questo motivo, e anche per ragioni di sicurezza, in tutti paesi avanzati – in Usa come in Gran Bretagna, per non parlare di Francia e Germania dove lo stato è azionista – i capitali nazionali controllano le reti delle Tlc. L’Italia – dove, a parte Telecom, tutti gli altri gestori delle Tlc sono già in mano britannica, cinese, russa, svizzera – costituirebbe quindi una clamorosa eccezione. Il governo è obbligato a intervenire se non vuole che l’Italia diventi la repubblica delle banane.
Come salvare la situazione? Non c’è alcun dubbio che il capitale pubblico può sviluppare meglio le aziende quando si tratta di investire in progetti infrastrutturali con ritorni economici solo nel lungo periodo. Non si tratta di buttare i soldi pubblici. A differenza dell’Alitalia, la redditività di Telecom sarebbe garantita: le reti di Tlc sono infatti un monopolio naturale non replicabile. È quindi opportuno che i fondi che fanno capo alla Cassa Depositi e Prestiti – come il Fondo Strategico Italiano e il Fondo per le Infrastrutture – intervengano rapidamente per sbarrare il passo a Telefonica e ad ogni altro eventuale predatore. La Cdp, forte di un attivo che supera i 300 miliardi di euro, non dovrebbe però solo acquisire la rete fissa come prospettato finora: dovrebbe diventare l’azionista di controllo di tutta Telecom e di Tim mobile, in Italia e all’estero, ricapitalizzare l’azienda e nominare nuovi manager (come lo stesso dimissionario Bernabè). L’obiettivo potrebbe essere di realizzare un’alleanza veramente alla pari tra Telecom Italia (non più preda) e un gestore estero, magari la stessa Telefonica. Solo un’alleanza internazionale alla pari darebbe a Telecom Italia nuove prospettive di sviluppo.
Sarebbe inoltre opportuno introdurre un’altra importante novità: i lavoratori dovrebbero eleggere i loro rappresentanti negli organi direttivi di Telecom. E il sistema di governo di Telecom Italia dovrebbero diventare duale, come accade in Germania. Nelle grandi società tedesche il Consiglio di Sorveglianza rappresenta la proprietà ed è nominato per metà dagli azionisti e per l’altra metà è eletto dai lavoratori: il suo compito è di fissare le strategie dell’azienda, approvare i bilanci e nominare il management. Il Consiglio di Gestione è invece composto dai manager e dirige operativamente l’azienda. Così i lavoratori possono influire sulle strategie e contribuire allo sviluppo dell’azienda.
Recentemente Susanna Camusso, segretario della Cgil, ha ricordato che l’articolo 46 della Costituzione italiana afferma che i lavoratori dovrebbero partecipare alla gestione delle aziende. Bisognerebbe applicarlo perché i lavoratori rappresentano la vera garanzia di sviluppo delle aziende in crisi. Ma è difficile che il governo Letta-Alfano lo capisca.