Fine dello stato di emergenza in Turchia dopo due anni e sette rinnovi, da quel 21 luglio 2016 in cui venne dichiarato in seguito al tentato golpe del 15 luglio. Ma gli abusi commessi dalle autorità non troveranno rimedio, anche perché il governo introduce nuovi decreti che replicano le disposizioni speciali sino ad oggi in vigore.

L’EMERGENZA FINISCE, ma la normalità non ritorna. Era stata una delle promesse elettorali di Erdogan: se verremo eletti, con questo nuovo sistema presidenziale da noi creato, fine dello stato di emergenza.

Conviene chiedersi cosa sia cambiato dall’ultimo rinnovo, lo scorso 19 aprile, per poter dichiarare finita l’emergenza. I supposti nemici di questo governo sono ancora a piede libero, a cominciare da Fetullah Gulen tutt’ora negli Usa. Bisogna dedurre che l’emergenza finisce perché concluso è il processo di trasformazione dello stato in repubblica presidenziale. Ora che il potere è assicurato, che l’intera macchina statale viene rivoltata come un calzino per ricondurre ogni ministero, dipartimento, organismo di vigilanza all’ufficio della presidenza, cioè ad Erdogan stesso, l’emergenza è finita. Ma a ben pensarci, non del tutto. I nuovi emendamenti alla legge antiterrorismo potenziano le autorità turche, in particolare i ministri e i governatori locali che, va ricordato, sono di nomina presidenziale.

LO FANNO PER ALTRI TRE ANNI, visto che le proroghe di tre mesi in tre mesi dello stato di emergenza erano diventate una scomoda routine. Le nuove modifiche prevedono che un sospettato di reati di terrorismo, crimine organizzato o attentato allo stato possa essere detenuto fino a 12 giorni.

I GOVERNATORI POTRANNO proibire il transito in determinati territori per ragioni di pubblica sicurezza. Potranno inoltre proibire il trasporto di armi e munizioni anche se in presenza di licenza. Il personale militare, di polizia e i dipendenti pubblici che siano ritenuti legati ad organizzazioni considerate una minaccia dal Consiglio nazionale di sicurezza verranno licenziati. Costoro non potranno essere riassunti in incarichi pubblici, anche se un tribunale dovesse ordinare diversamente e, compresi i coniugi, perderanno licenza d’armi e passaporto.

IL GOVERNO SI RISERVA la possibilità di commissariare istituzioni pubbliche e aziende private qualora siano collegabili a reati di terrorismo. Tutti provvedimenti già contenuti nello stato di emergenza e che ora diventano legge. Il ministero degli interni ha dichiarato che in due anni di misure speciali sono state arrestate 20.000 persone per legami con la setta di Gulen: oltre 700 giudici e procuratori, 7.000 soldati, 5.000 poliziotti e 6.500 insegnanti.

TUTTI COLPEVOLI di affiliazione, mentre 4.500 sono accusati di avere avuto un ruolo diretto nel golpe. Ma se allarghiamo il raggio d’accusa e includiamo tutte le accuse di terrorismo, il numero di arresti totale sale a 80.000.

Se includiamo anche le detenzioni temporanee, 228.000 persone sono state fermate tra luglio 2016 e marzo 2018 per la Piattaforma congiunta per i diritti umani (Ihop). La beffa finale arriva se guardiamo alla Costituzione, che prevede che con la fine dello stato di emergenza decadano anche i decreti adottati. Ma il governo ha passato un emendamento per garantirne la futura validità di legge. Non ci sarà possibilità di appellarsi ad un tribunale.

NÉ SI TROVERÀ GIUSTIZIA nella Corte europea dei diritti umani, che ancora attende che i rimedi legali nazionali siano esauriti prima di prendere in esame gli appelli. Merito, o forse colpa, di quella Commissione investigativa per le procedure di emergenza che il governo turco ha varato ad hoc e che, ad oggi, su 108.000 richieste ne ha valutate soltanto 21.500, delle quali soltanto 640 sono state accolte. Le opposizioni protestano, accusano l’Akp di instaurare un regime di emergenza indefinito. «Sono misure ancora più restrittive della legge marziale» ha denunciato Ayhan Bilgen, deputato dell’HDP.

Protesta anche l’Europa, eppure questa è la nuova normalità in Turchia. Una normalità d’emergenza.