È forse un amaro paradosso che oggi, nel settantacinquesimo anniversario del libro più sofferto dello scrittore John Steinbeck, Furore (Grapes of Wrath), ci si trovi di fronte, di nuovo, a condizioni di lavoro che spesso non tenegono conto dei minimi standard di diritti umani.
Ci ritroviamo di fatto in molte parti del globo – qualcuna anche troppo vicina per essere ignorata -, e dopo decenni di lotte per ottenere piccole grandi conquiste di lavoro e benessere, ci ritroviamo ricatapultati indietro, a quando chi aveva bisogno di lavorare e scappava letteralmente da condizioni di vita senza speranza, era disposto a sopravvivere in condizioni che si avvicinavano drammaticamente a condizioni di schiavitù.
Già, proprio come nella California raccontata in Furore, in cui John Steinbeck scriveva, e automaticamente denunciava, lo stato delle cose. «Questi sono delitti che trascendono ogni denuncia. Queste sono tragedie cui il pianto non può rendere testimonianza; e` un fallimento che annulla le più belle conquiste dell’umanità». E John Steinbeck si era avvicinato e aveva conosciuto le terribili condizioni di vita degli immigrati che erano arrivati sulla costa west, nella sua California, dopo la grande siccità degli anni trenta. Migliaia di famiglie, e anche la famiglia Joad nel romanzo, aveva lasciato l’Oklaoma, dopo che le coltivazioni erano state rovinate, distrutte dal Dust Bowl, cioè da quelle tempeste di polvere e sabbia che colpirono, tra il ’31 e il ’39, le Grandi Pianure americane.
In California, ci racconta il libro, nonostante la grande pubblicità fatta per cercare nuova manodopera, le cose non sarebbero state migliori. «Gli alberi stanno ritti e sani in fila, i tronchi sono robusti, la frutta matura. Ma i bimbi muoiono di pellagra perché da un’arancia il coltivatore non può trarre profitto; e il coroner scrive sull’atto di morte «morto per denutrizione» perché conviene lasciar marcire la frutta». E la rabbia dunque cresceva, come cresce sempre e ovunque, in ogni essere umano che non abbia più altra scelta se non quella di ribellarsi. La gente che racconta Steinbeck è gente che abita un romanzo, un lungo romanzo, ma è anche e soprattutto la gente che proprio lui, inizialmente nel 1936 in veste di giornalista per il San Francisco News, aveva incontrato. Come reporter e testimone, Steinbeck aveva viaggiato nei campi di soccorso nella contea del Kent. Aveva visitato, anche grazie all’aiuto dell’amico Thomas Collins, a cui il libro è dedicato e che lavorava per il Farm Security Administration, il Sanitary Camp di Arvin (nel romanzo chiamato Weedpatch Camp). Questo campo era tra i 15 realizzati con i fondi del Governo, e sicuramente tra quelli che funzionavano meglio. Ma aveva visitato con Tom anche quelli abusivi, dove le condizioni erano davvero difficili e dove lo squallore e la povertà si accompagnavano a epidemie, malnutrizione, fame. Nell’ottobre del 1936, il giornale pubblicò quindi una serie di sei articoli intitolati The Harvest Gypsies. Ogni articolo era stato accompagnato dalle drammatiche, silenziose fotografie di Dorothea Lange, che lavorava per la documentazione delle situazioni disperate dei migranti per il FSA – Farm Security Administration – già dal 1935, e che incontrò Steinbeck solo a libro pubblicato. Pochi mesi dopo la realizzazione di questi articoli e di queste esperienze drammatiche, nel dicembre di quello stesso anno, Steinbeck aveva deciso e sapeva che il suo prossimo libro sarebbe stato proprio una storia sulla vita dei migranti.
Leggendo il libro Working Days. The Journal of Grapes of Wrath (Penguing Books), un diario dei giorni di lavorazione del libro a partire dal maggio del 1938, si vede, si sente la grande sofferenza di uno scrittore che era stato fortemente segnato dalle situazioni che aveva visto e di cui aveva scritto negli articoli per il San Francisco News. Quasi non potesse capacitarsi che in California, la sua California, potessero succedere certe vergogne. E non poteva neppure far finta di non aver vissuto in prima persona, nel febbraio del 1938, l’orrenda esperienza dell’inondazione dei campi di Visalia e Nipomo. Furore è probabilmente stato scritto anche a causa, come disse poi nel 1952 in un’intervista alla radio Voice of America, dell’enorme rabbia che lui stesso aveva provato. Certe pagine non possono evitare di raccontare la realtà. «E gli occhi dei poveri riflettono, con la tristezza della sconfitta, un crescente furore. Nei cuori degli umili maturano i frutti del furore e s’avvicina l’epoca della vendemmia».
Questo libro, che fu premiato nel 1940 con il Premio Pulitzer e grazie anche al quale Steinbeck ricevette, nel 1962, il premio Nobel, ha ancora oggi tanto da dire e insegnare. A tutti e in ogni luogo.
Riconosciuto come il più grande, coraggioso e controverso libro di John Steinbeck, Furore era stato scritto, dopo molte prove e tentativi, in una versione finale a partite dal maggio del 1938. Ed è stato, forse soprattutto, un libro spesso ritenuto populista e rivoluzionario che, in qualche modo, profetizzava un grande cambiamento nelle condizioni sociali dell’individuo. La storia alla fine aveva premiato le lotte per i diritti, sia dei lavoratori che delle famiglie. Ma che la storia si ripeta, accidenti, è una verità incontestabile, soprattutto quando i vantaggi ottenuti non sono più tutelati con rigore. Settantacinque anni per arrivare oggi a una specie di un ultimo salto carpiato rovesciato… che riporta a volte più indietro di quando si era partiti.
Susan Shillinglaw, insegnante di inglese e direttrice del Center for Steinbeck Studies all’Università di San Jose (che possiede la più vasta collezione di materiale su Steinbeck al mondo) spiega come il libro venne attaccato da più parti. «Parte dello shock inizialmente fu nella resistenza di credere che ci fosse quel tipo di povertà in America. … Altri pensarono che Steinbeck fosse un comunista e quindi non apprezzarono il libro» Anche il cambio di ottica dall’«io» al «noi» non era piaciuto. Perché era un attacco all’individualismo americano.
«Furore forse rappresenta una sorta di mito senza tempo. Steinbeck aveva visto gli espropri come un tema e come una storia molto più grande di quella solo californiana. …Tom Joad esce dal romanzo dicendo ‘ci sarò, ovunque la gente ha fame…’ che è come se dicesse che, nel tempo, ci sarà ancora bisogno di lui».
Leggendo pagine vecchie 75 anni, e poi le pagine di cronaca di qualsiasi quotidiano, ci si rende conto che questa mitologia, con circostanze e personaggi diversi, sembra restare sempre la stessa e ripetersi ancora. Una cronaca che ci racconta di discorsi in piazza dei diversi Grillo e Salvini, che cercano di relazionarsi confusamente al pericolo del nemico-immigrato. Ed è anche quella cronaca (Corriere della Sera, 23 ottobre) che racconta di centinaia di giovani operaie-schiave rumene (dai 20 ai 40 anni) nei campi siciliani del pomodoro datterino e ciliegino. Giovani donne che vivono e lavorano 11 ore al giorno per poche decine di Euro, in condizioni, anche igieniche, degradanti e umilianti, e forse anche molto peggiori dei campi immigrati.
Ma le cose sono cambiate, oggi. Oh, certo che sono cambiate. Le tempeste di sabbia e la siccità oggi si chiamano guerre e bombe che piovono dal cielo e distruggono tutto. I carrozzoni carichi di famiglie affamate – come quello dei Joad, con un giovane Henry Fonda nel film di John Ford – oggi sono le barche che troppo spesso annegano nel mare. La bella Route 66, che arriva fino alle coste dell’allora Terra Promessa Californiana, e che veniva percorsa da chiunque volesse scappare dalla polvere, dalla sabbia e dalla fame per arrivare al benessere dell’estremo West, oggi si chiama Mar Mediterraneo. Nel libro e negli anni Trenta gli immigrati si chiamavano Okie, oggi invece si chiamano – anche – siriani.
Il libro parlava dell’Associazione degli Agricoltori Californiani – una delle organizzazioni più aggressive nella storia americana – in modo molto diretto. Ci raccontava dei grandi proprietari terrieri che avevano attirato migliaia di migranti in California, in modo da poter mantenere i compensi al minimo. Raccontava un inimmaginabile livello di povertà, di miseria, di mancanza di abitazioni, di fame. Si raccontava del potere, delle banche e dei proprietari terrieri, perché in California i più deboli, dal punto di vista del potere, erano, forse da sempre, i migranti: cinesi, giapponesi, filippini, messicani e sì, anche gli «Okie». Il libro di Steinbeck rendeva evidente che il sogno americano della California e del West era fallito tragicamente, con tutte le sue ombre. E oggi, nella bella Italia, che sicuramente si è commossa leggendo le pagine di Steinbeck, be’, adesso in Italia ci sono padroni che, anche, violentano le loro cosiddette «dipendenti» rumene.
Furore era per fortuna stato difeso da Eleanor Roosvelt dopo che, appena uscito, aveva scatenato tantissime proteste. La first Lady aveva scritto: «Devo dire che ho appena finito un libro che è un’esperienza di lettura indimenticabile. Furore, di John Steinbeck, attira e allontana. Gli orrori della scena così bene raccontati, fanno temere di cominciare il capitolo seguente, ma non si può posare il libro e neanche saltare una pagina. Ho visto critiche che dicono che questo libro è contro la religione, ma non posso in nessun modo immaginare di pensare a mamma Joad senza allo stesso tempo pensare all’amore. Il libro è cattivo in certi punti, la vita a volte è cattiva, ma la storia è bella quanto lo è la vita».
Il libro, tra i più amati nella letteratura americana, è stato odiato, bandito, bruciato. Bandito dalle scuole americane – molto spesso anche per la scena finale (assente nel film di John Ford) di Rose of Sharon che, perso il figlio, offre il proprio seno e latte a un uomo che sta morendo di inedia –, era stato spesso giudicato immorale, degradante, privo di ogni verità.
Ma per fortuna resta comunque il fatto che oggi, all’età di 75 anni, questo capolavoro ha venduto più di 15 milioni di copie, continua a vendere più di 100 mila copie all’anno, ed è stato tradotto in quasi tutte le lingue del mondo. Sì, forse Furore ha davvero ancora qualcosa da insegnare….