Nel 1983 usciva in Germania Critica della ragion cinica di Peter Sloterdijk, anomalo caso di un libro di filosofia tutt’altro che divulgativo dallo straordinario successo in termini di copie vendute, prima in Germania, poi in Francia e in altri paesi. La rivalutazione del cinismo antico, che in quegli stessi anni per una singolare coincidenza coinvolgeva anche Michel Foucault, giocata in quel volume come antidoto al «cinismo moderno», non suscitò particolari attenzioni in un paese come il nostro, tradizionalmente assai ricettivo nei confronti delle novità emerse in giro per il mondo.

IN SEGUITO, SLOTERDIJK avrebbe consolidato la sua fama come pensatore, specie a partire dai tre volumi di Sfere, una sorta di Essere e spazio o, meglio, di Essere e cerchio che costituisce forse il più elaborato tentativo di concettualizzare in termini filosofici la problematica della globalizzazione. Parallelamente, il filosofo tedesco, ha acquisito una notevole visibilità, anche mediatica, in forza delle sue qualità di brillante polemista sui temi del presente, indulgendo talvolta alla boutade (non sempre felice) e al gusto della provocazione.

In Sloterdijk abbiamo la non sempre facile convivenza di due vocazioni, quella del filosofo e quella del saggista. Il filosofo procede per costruzioni concettuali, in reazione a un fuori che lo stimola e perturba, che lo costringe a pensare. Il saggista, invece, parte dal contingente, dal singolare, e lo complica intrecciandolo con il concetto. Nei testi di Sloderdijk, anche i più teoreticamente impegnati, le due prospettive si intersecano costantemente, con i vantaggi e i limiti che ne conseguono.

SUL PRIMO VERSANTE è senza dubbio da porre la capacità di Sloderdijk di gettare uno sguardo inattuale sull’attualità a partire non da generici universali ma da concreti stati di cose, da tendenze in atto, dalle curiosità per singoli aspetti del reale considerati nella loro specificità spazio-temporale. Sull’altro, nella trama di una prosa brillante, si può notare come il procedere concettuale di Sloterdijk si faccia portatore di una promessa, o di un’aspettativa, di sistematicità che resta inappagata o consegnata alla dimensione dell’implicito, dell’allusivo, del differito lungo le sequenze di ricche digressioni. In sintesi, la lettura di un libro di Sloterdijk offre al lettore qualche momento di vertigine teorica, punti di vista eccentrici su problematiche spesso usurate, accostamenti arditi fra prospettive.

E tuttavia, quando, si tratta di definire i tratti sistematici che costituiscono la specificità del suo pensiero, il piano su cui i concetti emergono come singolarità richiamandosi reciprocamente, subentra un’immediata difficoltà e la sensazione di essersi smarriti.

I tratti su cui si è richiamata l’attenzione trovano conferma in L’imperativo estetico. Scritti sull’arte (Cortina, pp. 198, euro 19), traduzione parziale di una raccolta di saggi pubblicata in Germania nel 2014. Dal volume non è lecito attendersi né una filosofia dell’arte sistematica né la proposta di un’estetica precettiva e normativa, due operazioni forse ormai anacronistiche e presumibilmente consegnate alla storia.

PARADOSSALMENTE, ma forse non è così, quasi assenti sono anche l’arte e le opere, a riprova del difficile nesso, quasi un’impossibilità o un imbarazzo generalizzato, che segna da qualche decennio il rapporto dell’estetica come ramo della filosofia con ciò di cui dovrebbe occuparsi. Il richiamo all’estetica, quindi, vale qui in senso soprattutto percettologico e antropologico, come condizione di quell’homo aesteticus che problematicamente si intreccia e sovrappone, in configurazioni variabili, all’homo sapiens e all’homo faber.

IN DIALOGO con visual e media studies, neuropsicologia e antropologia, si propone come centro unificatore di una possibile estetica antropologica il concetto di «presenza mentale», che di fatto, al di la delle ribadite istanze antidualistiche con cui lo si caratterizza, resta alquanto oscuro. Al di là dell’elusività del loro centro unificatore, tuttavia, i contributi raccolti in L’imperativo estetico disegnano un ricco itinerario fra temi e problemi che spaziano dalla perdita dell’altrove all’ontologia del debito o dalle «radici uterine» del demoniaco musicale.

Due saggi, poi si segnalano in particolare. In primo luogo il brillante esperimento di antipolitologia «La citta e il suo contrario», in cui vengono convocate dieci audizioni di testimoni autorevoli, da Platone a Baudelaire passando per Timone il misantropo, per mostrare come il fenomeno urbano occidentale si fondi su una dialettica fra politicità e apoliticità, fra cittadini e disertori, «riuniti e non-riuniti», fra «la somma di coloro che vanno a costituire la città e di coloro che mirano a estranersene». Il secondo, invece, «L’attrezzatura della potenza», si concentra sul design, ultima riserva di quel bello estetico ormai definitivamente trasmigrato dai mondi dell’arte. Sloterdijk assume quell’«arte applicata» come nucleo paradigmatico ed egemonico di una modernità persistente, con il suo orientamento al futuro e all’infinta perfettibilità/migliorabilità.

Ne deriva l’evocazione di una sorta di «stato di eccezione permanente nelle questioni relative alle forme delle cose» in cui il designer emerge come fornitore di «effetti simulati di sovranità» e «di armi per le lotte di potere fra i titolari di quel capitale variabile che circola sotto forma di merci in corso di miglioramento».