L’onda lunga di Draghi al Quirinale, che negli ultimi due giorni si è parecchio irrobustita, rischia però di infrangersi contro uno scoglio che non è ancora stato rimosso: il nuovo governo. Sul nome del sostituto a palazzo Chigi la trattativa langue. E più si arena la ricerca di un nome che possa tenere insieme l’attuale maggioranza, più si diffonde il timore tra i peones che dovrebbero essere indotti a votare Draghi al Colle: «Si rischia di finire alle urne».
Certo, l’attuale premier nella conferenza stampa di dicembre si è impegnato per il prosieguo della legislatura e i tanti incontri di questi giorni fanno capire che anche lui è impegnato nella ricerca di un sostituto. Ma tra i parlamentari cresce la sfiducia. Non solo sulla possibilità di trovare un nuovo premier di larghe intese, ma anche sulla composizione dell’esecutivo.

UNA CRISI RISCHIA INFATTI di aprire faglie dentro tutti i partiti: nel Pd, dove Letta sarebbe orientato ad avere almeno una donna eliminando uno dei tre capicorrente che ora guidano un dicastero; nel M5S dove Di Maio rischia di pagare un prezzo alla rivalità con Conte; nella Lega dove Giorgetti potrebbe essere oggetto di rimpasto ad opera di Salvini. Per non parlare di Forza Italia, i cui tre ministri furono scelti da Mattarella e Draghi bypassando i desiderata di Berlusconi che in un nuovo esecutivo vorrebbe infilare Antonio Tajani. «La quadratura del cerchio è molto lontana», spiega un parlamentare di centrosinistra. «Se tocchi una pedina crolla tutto», gli fa eco un collega. Di qui l’esigenza di un governo il più possibile simile all’attuale, sacrificando magari i tecnici per lasciare spazio ad altri esponenti dei partiti: se il governo si farà, è quasi certa l’uscita di Roberto Cingolani (Transizione ecologica) e Patrizio Bianchi (Istruzione).

INTOCCABILE, SE DRAGHI traslocasse al Colle, il fedelissimo ministro dell’Economia Daniele Franco, che è anche tra i papabili per palazzo Chigi. Ma paga il fatto di essere considerato un «avatar» di Draghi, dunque se fosse premier sarebbe un doppio commissariamento della politica nelle due postazioni chiave della politica italiana. Marta Cartabia (Giustizia) dalla sua avrebbe l’essere il primo premier donna nella storia italiana: ma le sue quotazioni sono in netto calo per una certa freddezza di rapporti con SuperMario e per ostilità dei 5 stelle.

IL NOME DI VITTORIO COLAO, ministro della Transizione digitale, in questi giorni è in forte ascesa, anche perché non ascrivile a nessuna area politica: ma il suo profilo di manager a tutto tondo cozza col ruolo di premier. I tecnici che finora hanno guidato i governi, da Ciampi a Dini, da Monti allo stesso Draghi, sono sempre stati civil servant, provenienti dal Bankitalia o dalle univwersità, mai ex ad di una multinazionale come Colao che ha guidato Vodafone per anni.

DI UN POLITICO A GUIDA di una maggioranza da Leu alla Lega si parla, ma alla fine tutti concordano: «Non si regge». E dunque si ritorna alla casella di partenza. Tra i pababili ci sono anche Enrico Giovannini (ministro dei Trasporti) e Filippo Patroni Griffi, da poco eletto giudice costituzionale dopo aver guidato il consiglio di Stato. Ministro della Pa nel governo Monti, è stato sottosegretario alla presidenza nell’esecutivo guidato da Enrico Letta. Così come Giovannini ne è stato ministro del Lavoro.

PER QUESTE RAGIONI, in casa Pd, entrambi i nomi (oltre a quello di Colao) avrebbero un rapido via libera per palazzo Chigi. E anche dai 5 stelle non dovrebbero alzarsi barricate. Il problema è a destra, con Salvini che uscirebbe a mani vuote dalla doppia partita Colle- governo. Certo, i governi Monti e Letta erano di larghe intese (il secondo solo all’inizio), e questo potrebbe portare ad un sì da parte di Forza Italia, ma la Lega non ne faceva parte.

In ogni caso si tratta di figure che rischiano di non reggere la pressione di una maggioranza così variegata. Né è probabile che la Lega accetti di passare all’opposizione dopo aver mancato l’elezione di un presidente della Repubblica di centrodestra: per Salvini, che sta cercando di far dimenticare il mood Papeete per accreditarsi, sarebbe uno smacco. Nel caso in cui invece Salvini tornasse “di piazza”, la soluzione sarebbe a portata di mano: con una maggioranza giallorossa più centristi il nome del premier salterebbe fuori nella triade Pd Franceschini- Guerini-Gentiloni.

IL REBUS SI FA SEMPRE più intricato. «Questo è il vero punto debole nell’operazione Draghi-Quirinale», spiega una fonte Pd. Una «operazione a cuore aperto, al alto rischio di fallimento». Anche perché, sussurra la fonte, «una volta eletto Draghi qualcuno dei chirurghi potrebbe sbagliare apposta una manovra e così le elezioni sarebbero immediate».