C’era una volta il ciclismo d’altri tempi, quelli in cui si battagliava da marzo a ottobre, una fuga collettiva lunga un anno. C’era una volta e c’è ancor oggi. Grazie a Vincenzo Nibali, che trionfa a braccia alzate sul rettilineo di via Roma, da solo contro il gruppo che rincorre, un po’ mucchio selvaggio un po’ polli di Renzo.

Questa Sanremo ce lo restituisce come il più grande della sua generazione, il primo campione totale dai tempi del tasso Hinault. Si mette alle spalle i velocisti, e, forse, un’epoca intera: quella di Armstrong, della specializzazione esasperata, una corsa e via.

Primo al Lombardia, Nibali, l’autunno scorso, e primo oggi a Sanremo. Alle spalle due Giri, un Tour e una Vuelta. Tutto a base di coraggio e fantasia, in uno sport spesso ormai troppo ingessato.

PER IL GRUPPO, e per la gente al seguito, la primavera inizia nel momento in cui il primo corridore della fuga mette il naso fuori dalla galleria in vetta al Colle del Turchino. Ci si lascia alle spalle la Val Padana, le sue nebbie e il suo inverno e si punta la promessa del mare, in un saliscendi continuo tra agavi, ulivi scoscesi sui terrazzamenti e i limoni di Montale che fanno capolino dalle corti.

È così dal 1908, da quando Armando Cougnet vinse la scommessa di trasformare una gara podistica in due tappe nella Classicissima.

Il tempo del microcosmo del ciclismo è circolare, non procede in linea retta. Certo, la sua geografia e la sua geopolitica sono cambiati. Gli sponsor più prodighi non sono più mobilifici dei distretti o salumieri della Brianza, per i cui colori Merckx sprintò a Sanremo sette volte (record: ti pareva).

Ma grandi gruppi di telecomunicazioni e fondi d’investimento del Bahrein e del Quatar. Capitali fluttuanti che si riversano sulle squadre di football della City ma che fanno ricadere qualche goccia sostanziosa pure sulle due ruote. E in onore ai petrodollari i campioni inaugurano la stagione a Dubai e Abu Dhabi già a gennaio, mese in cui Luisòn Ganna vestiva ancora la tuta del meccanico per sbarcare il lunario nella stagione senza corse. E però il fuso orario e l’agonismo relativo ci fanno vivere quelle gare come un rumorio di fondo, un atto dovuto, aspettando la Milano – Sanremo, il giorno della festa di San Giuseppe, o giù di lì.

 

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E PUNTUALE, DOPO una nottataccia di temporali sul Ponente, anche oggi è spuntato il sole sul Poggio di Sanremo. Andò peggio nel 1910 quando, travolto dalla tempesta di neve e dall’uragano, il gruppo si ridusse al lumicino, ed Eugene Christophe ebbe la meglio sugli unici altri tre in grado di arrivare fino alla riviera. Un’ora di vantaggio, compreso il tempo di fermarsi all’osteria, rifocillarsi, e scambiare abiti asciutti con un militare di passaggio.

Era la terza edizione, definita dai francesi una crociata, indetta per lavare l’onta dell’anno precedente, quando a opera di Ganna avevano subito «l’affronto di Sanremo». La prima l’aveva fatta sua un altro francese da poco rientrato dall’Argentina, nome d’arte Petit-Breton, grazie anche al lavoro sporco di Gerbi: poco avvezzo alla sconfitta ma vistosi perso nella volata a tre, il Diavolo Rosso aveva sbatacchiato alle transenne l’altro francese Garrigou, per poi spartirsi il bottino in denaro col vincitore. Erano i tempi in cui il fairplay, variante sportiva del politicamente corretto, non era giunto a mettere il ciclismo sotto formalina, assieme alle oreillettes e ai dietologi.

E del resto chi avrebbe dovuto vigilare sul gioco pulito? Gli organizzatori? Non dette certo il buon esempio Emilio Colombo, direttore della Gazzetta, quando nel 1935 fu sorpreso da uno sconosciuto intento a spianare il Capo Cervo e a involarsi verso il mare.
L’ALBO D’ORO DELLA CORSA italiana più nobile non poteva essere sgualcito da un carneade, e il genio di Colombo gli ispirò un’intervista volante per far perdere minuti al fuggitivo. Al quale, e di questo in seguito fioccheranno le conferme, non faceva difetto la vanità. Il pesce abboccò, e Olmo, Guerra e Cipriani poterono rinvenire e piazzarsi in quest’ordine. Poco male, Bartali si rifece nel ’39, e poi nel ’40, e poi nel ’47 (già lo definivano un vecchio in cerca di rivincite: il bello doveva ancora venire, al Tour del ‘48) e infine nel ’50, l’ultima delle sue grandi vittorie.

Al grande rivale, Fausto Coppi, che pure avrebbe dovuto sentire aria di casa, la corsa si addiceva meno, costretto com’era, se voleva vincerla, ad arrivare solo. E solo arrivò nel 1946, una metafora della ricostruzione del Paese e del rilancio del suo sport più seguito. Talmente solo che Nicolò Carosio, in attesa del secondo, disperso sul Turchino, dovette annunciare dalla radio, per i successivi dieci minuti, musica da ballo.

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Oggi tra Nibali e tutti gli altri non c’è tempo neppure per un’imprecazione. La corsa va via piatta per 290 km, più o meno. Nove fuggitivi galleggiano fino alla Cipressa, poi riassorbiti dai gregari scatenati dei velocisti. Due di loro, Kittel e Cavendish, per cattiva forma o eccessiva temerarietà, son fatti fuori. Gli altri arrivano in carrozza ai piedi del Poggio, e già lo sprint di massa pare apparecchiato. Tant’è che Nibali, dubbioso, abborda Sagan, favoritissimo, per sondarne le intenzioni. «Attendi la volata?». «Boh», la risposta del campione del mondo, di solito più espansivo. Dubbi non risolti.

MA IN QUELLA SCAPPA fuori Neilands, campione della Lituania, e a Nibali non pare il vero. Una prima progressione per riportarsi sotto, un’accelerata furibonda per scrollarselo di dosso, e poi non lo rivede più nessuno, nel gruppo. Caleb Ewan, il breve, dalla Tasmania, è quello che va più vicino a riacciuffarlo. Terzo finisce Arnaud Demare, ragazzo prodigio vincitore due anni fa.

L’assolo se lo gode il vincitore – «ero sicuro di aver vinto, mi sono detto: gustati questa vittoria». E assieme a lui il popolo del ciclismo, marea bifronte che guarda indietro, ai campioni del passato, con la speranza che là davanti ritorni qualcuno a chiudere il cerchio.