Cento anni dopo la «marcia su Roma» il rigurgito squadrista contro la sede nazionale del principale sindacato italiano ripropone, nel corpo politico-sociale di un Paese segnato dai violenti spasmi della crisi pandemica e sociale, un tema di fondo della storia dell’Italia contemporanea, ovvero la definizione del carattere della nostra democrazia di fronte alla questione del fascismo come «non risolto» della Repubblica.

Aporie e limiti della transizione dalla dittatura alla democrazia segnarono i fenomeni della continuità dello Stato; dell’impunità dei crimini di guerra; della mancata epurazione degli apparati istituzionali; del persistente ruolo dirigente di classi proprietarie consustanziali al regime di Mussolini ed alla monarchia dei Savoia.

Il vizio d’origine dei mancati conti con il fascismo, intesi non soltanto come sanzione dei vertici responsabili ma anche come discussione pubblica del comportamento degli italiani durante il «ventennio», produsse nel corso della «prima Repubblica» torsioni democratiche e tentativi eversivi di regressioni politico-istituzionali.

Lo squadrismo in Italia non rappresentò un fenomeno circoscritto agli anni Venti ma caratterizzò costantemente l’agire politico e identitario dei partiti e dei gruppi neofascisti per tutto il corso degli anni ’60-’70 tanto da portare allo scioglimento di Ordine Nuovo nel 1973, di Avanguardia Nazionale nel 1976 ed alla campagna di messa fuorilegge del Msi del 1975. In questo tempo si erano consumati il tentativo di formare il governo Tambroni bloccato dal moto popolare del luglio 1960; le violenze fasciste contro studenti e operai in lotta; i tentativi di colpo di Stato (golpe Borghese 1970) le centinaia di attentati contro sedi sindacali e dei partiti democratici; le stragi (da Piazza Fontana al treno Italicus passando per Piazza della Loggia a Brescia); la rivolta di Reggio Calabria del 1970 con la strage di Gioia Tauro. Vicende che segnarono lo sviluppo dell’anomala democrazia italiana caratterizzata dalla conventio ad excludendum contro il Pci.

Tuttavia l’ambiguità non sciolta attorno all’esistenza stessa di un partito fascista in un Parlamento rifondato dalla Resistenza si mantenne sostanzialmente inalterata, tanto più che i voti del Msi più volte vennero chiesti ed usati dal fronte conservatore per governare grandi città del Mezzogiorno; puntellare i governi Zoli e Pella; eleggere Presidenti della Repubblica come Giovanni Gronchi (già membro del governo Mussolini nel 1922) e Giovanni Leone.

Nell’era politica post-1989 la questione tornò all’ordine del giorno con lo «sdoganamento» degli eredi di Almirante da parte di Silvio Berlusconi ed il loro accesso al governo nazionale.

Il fascismo divenne allora non più questione solo politica ma anche culturale nel Paese con l’avvio di una martellante campagna di revisionismo storico culminata con l’istituzione e la strumentalizzazione della legge sulla giornata del ricordo, la vulgata antipartigiana e la proposta di legge di Fratelli d’Italia di equiparazione tra Shoah e foibe del 2020.

Nel dibattito pubblico lascia basiti la continua parificazione, operata dalla destra postfascista per trarsi d’impaccio di fronte alla sua evidente estraneità ai valori fondativi della Repubblica, tra antifascismo e anticomunismo. Non di meno lascia esterrefatti constatare come la sinistra non rivendichi la natura e il ruolo storico che il comunismo italiano ha avuto nella lotta al fascismo negli anni della clandestinità e poi della Guerra di Liberazione (con il maggior numero di condannati ed uccisi dal Tribunale Speciale fascista; con il più grande numero di donne e uomini combattenti nella Resistenza; con il più alto numero di caduti) e nella fondazione della Repubblica.

Una ragione della storia rappresentata da figure come Umberto Terracini che fu, insieme, presidente dell’Assemblea Costituente, firmatario della Carta e già fondatore del Partito Comunista d’Italia proprio cento anni fa.

L’unità antifascista del secondo dopoguerra fu capace di dare risposte al Paese in termini materiali con la ricostruzione; culturali con la scolarizzazione di massa; politico-sociali con la costruzione di un perimetro nuovo della cittadinanza. Ciò non significò «pacificazione» ma, al contrario, legittimazione della democrazia partecipata e conflittuale i cui grandi approdi furono lo statuto dei lavoratori, le conquiste del movimento delle donne, il diritto alla salute e all’istruzione, i diritti civili.

È su questo terreno e sulla capacità di un governo contraddittorio e spurio come quello di oggi che si misureranno le differenze (per ora impietose) tra l’unità nazionale del passato e quella di oggi. È lì che la questione del fascismo e delle condizioni che ne determinano il riemergere nelle crisi dovranno essere affrontate senza incertezze e con spirito tutt’altro che pacificato.
Si dovrà scegliere, come sempre, da quale parte stare.