L’ultimo saluto all’umanità lo aveva dato tre anni fa su un campo di calcio. Tutto vestito di nero: cappotto, guanti, sciarpa e colbacco, era una notte di luglio e a Johannesburg l’inverno australe non perdona. Faceva un freddo da lupi e nonostante gli acciacchi dell’età, Nelson Mandela si era presentato allo stadio di Soweto per salutare il suo popolo e il pianeta intero in occasione della finale dei mondiali di calcio tra Spagna e Olanda, la prima della storia disputata in Africa. A bordo di una macchinetta elettrica con la moglie Graca Machel si era fatto un giro di campo in mondovisione, avvolto nel calore del pubblico e nel frastuono delle vuvuzelas di Soccer City. Poi se n’era tornato a casa a guardare la partita in tv, con figli e nipoti.

La Coppa del mondo sul suolo africano ce l’aveva portata lui, spendendo il suo nome di fronte ai padroni del grande circo del football. «Questi mondiali rappresentano molto più di un semplice gioco. Sono il simbolo del potere del calcio nell’unire gli uomini senza distinzioni di lingua, colore, politica e religione». E pure lo stadio di Soweto, piantato tra le baracche e le discariche della township più famosa di Johannesburg, in qualche modo era suo. Lì, l’11 febbraio 1990, l’ex detenuto 466/64 dell’isola-prigione di Robben Island aveva tenuto il suo primo discorso pubblico da uomo libero dopo 27 anni dietro alle sbarre. Nelson Mandela è stato un genio, un dirigente politico e moderno con una sensibilità straordinaria nei confronti della dimensione simbolica. E in questo, lo sport l’ha agito e vissuto come strumento di lotta, libertà e pacificazione. Nel 1995 quando la nazionale sudafricana di rugby vinse la Coppa del mondo disputata in casa, Mandela era presidente da poco più di un anno. Prima della finale contro la Nuova Zelanda, scese negli spogliatoi dell’Ellis Park e spiegò ai giocatori che sì gli Springboks erano sempre stati l’emblema del potere bianco e sì fra loro poteva contare appena un giocatore nero (il meticcio Chester Williams), ma quella squadra che per paradosso sfidava gli All Blacks neozelandesi era per lui l’arcobaleno del nuovo Sudafrica libero e multirazziale. E perché il messaggio arrivasse chiaro e forte ovunque, Mandela andò in campo a consegnare il trofeo al capitano François Pienaar, indossando la stessa maglia verde di quell’afrikaneer grosso e biondo che gli avrebbe chiesto un giorno di fare da padrino a suo figlio. «Il mattino dopo ci svegliammo ed eravamo tutti sudafricani». L’abbraccio commosso tra i due uomini, immortalato da Clint Eastwood nel film Invictus, è uno dei miti fondativi della società sudafricana post-apartheid. Il simbolo della riconciliazione.

Quel pomeriggio a Johannesburg nacque la leggenda della Madiba Magic, la capacità carismatica di spingere l’uomo, l’atleta, lo sport, oltre l’ostacolo. Chi aveva condiviso col futuro Premio Nobel per la pace gli anni di prigionia a Robben Island, la conosceva bene. Intorno alla metà degli anni 60, Mandela era stato tra i promotori della Makana Football Association, il board di prigionieri politici che organizzava il campionato di calcio all’interno dell’isola. Avevano convinto i carcerieri che giocare a pallone era un loro diritto, fin lì negato. Pur essendo lo sport nero per eccellenza, Mandela non si intendeva di calcio, da ragazzo aveva tirato di boxe e praticato l’atletica. Però in biblioteca si era accorto che i suoi compagni di detenzione dedicavano il loro tempo di lettura tanto al Capitale di Marx quanto al Manuale delle regole Fifa. E che in nome del football, erano addirittura disposti a mettere da parte le spaccature tra African National Congress e Pan Africanist Congress. Fu creata una commissione disciplinare interna i cui membri tenevano una fitta corrispondenza su tabellini, referti arbitrali e squalifiche. I giocatori potevano presentare appello e difendersi davanti a una giuria. «Ci dicevano che non eravamo persone e invece noi dimostrammo che si poteva avere un regolare processo. Con il pallone abbiamo rivendicato la nostra dignità».

Mandela non giocò mai nemmeno una partita del torneo e con l’inizio dell’isolamento gli fu negata anche la possibilità di guardare gli altri giocare. In una cella angusta di due metri, si teneva in forma con flessioni e corsa da fermo. Nell’estate del 1980 riuscì a convincere le guardie a prestargli una radio per ascoltare la finale di Wimbledon tra McEnroe e Borg. «Lo sport – scrisse nella sua autobiografia Lungo Cammino verso la libertà (Feltrinelli, 1995) – è essenziale per la salute, ma soprattutto per la pace della mente».

Sempre a proposito della Madiba Magic. Un anno dopo i mondiali di rugby, il Sudafrica ospitò la Coppa d’Africa di calcio. Finale tra i padroni di casa e la Tunisia, sempre lì, a Soweto. Ricorda Linda Buthelezil, centrocampista, 27 presenze con i Bafana Bafana, soprannominato Mercedes Benz. «Venne a trovarci negli spogliatoi e disse che in fondo se lui aveva trascorso 27 anni in prigione, noi potevamo anche passare 90 minuti su un campo di calcio per difendere l’onore del paese e alzare la coppa. Ci abbracciò uno a uno. Tutti quanti, bianchi, neri, meticci, sapevamo che avremmo vinto. Come potevamo deludere questo grande uomo che con la sua forza e il suo esempio ci aveva regalato la libertà?». Vinse il Sudafrica 2-0. Tre anni fa invece la magia non bastò a evitare l’eliminazione prematura dei padroni di casa e non bastò nemmeno all’Olanda finalista, per la quale nonostante le antiche reminescenze boere si dice facesse tifo il vecchio Madiba davanti alla tv. Affettuoso omaggio a quel tulipano nero con le treccine che nel 1987 gli aveva dedicato la conquista del Pallone d’oro mentre lui era ancora rinchiuso. «Io, Ruud Gullit, sto con Mandela».