Peccato che il documentario di Guido Chiesa e Giovanni De Luna – 25 aprile: la memoria inquieta – si fermi al 25 aprile del 1994 quando, a Milano, una folla di persone sotto una pioggia battente non riuscì fermare il ventennio in arrivo, quello dei nani e delle ballerine, con tutto il rispetto per i nani e le ballerine, che avrebbe fatto sconcio della cultura istituzionale della Prima Repubblica, quella nata dalla Resistenza. Ma non è che prima le cose siano state semplici, condivise e sedimentate, come pure una certa visione cristallizzata della Resistenza, e del 25 aprile che ne è la sua raffigurazione simbolica, ha rappresentato. Anzi.

Eppure ancora di più l’Italia della seconda Repubblica si è particolarmente impegnata ad offrire di sé l’immagine di una comunità politica che poteva vantare un accordo condiviso sui fondamenti della vicenda nazionale. E la necessità di legittimare la destra al governo non è certo estranea alle modalità con cui si sono svolte in queste venti anni le celebrazioni del 25 aprile e il discorso pubblico sulla Resistenza. Per questo il documentario di Chiesa e De Luna, del 1995, è importante. Nei filmati di repertorio dell’archivio Rai e dell’Istituto Luce si succedono, senza commenti, le immagini delle celebrazioni nel corso dei decenni, ricorrenze inquiete, come appunto riporta il titolo. E che, raccontando una memoria niente affatto pacificata, restituisce il contesto del «prima».

Così alle piazze dove sfilano i partigiani dei primi anni del dopoguerra seguono con sempre maggiore frequenza quelle dei rappresentanti di governo che, circondati da alte cariche dell’esercito, posano una corona al Vittoriano sulla tomba del milite ignoto: il rito si cristallizza e bisognerà arrivare prima ai fatti del 1960 e poi all’inizio degli anni Settanta perché il 25 aprile torni «di piazza». E se gli anni tra il 1985 e il 1993 vengono ricordati nel documentario con un titolo feroce – «sotto le celebrazioni niente» – sarebbe interessante sapere con quale titolo avrebbero segnalato gli anni a seguire.

Oggi infatti capita spesso che del 25 aprile, festa della Liberazione, gli studenti non sappiano nulla, a parte che non si va a scuola. Un paio di anni fa la scuola elementare «25 aprile» di Roma ha partecipato ad un progetto sulla memoria della Shoah – con una scuola che si chiama così sembrerebbe facile come bere un bicchier d’acqua – ma, a metà dell’incontro, i bambini sgranano gli occhi: «Il 25 aprile? E cosa è?». Un sussulto di orgoglio giunge però all’arrivo della maestra di storia alla quale i bambini si rivolgono robustamente inviperiti: «Maestra, perché non ci hai detto quanto era importante il nome della nostra scuola?».

È un esito che non dovrebbe sorprendere: le celebrazioni per la festa della Liberazione sembrano infatti essersi ritratte sempre più dal calendario civile e politico della Repubblica a favore di date meno spinose per la memoria nazionale a cominciare proprio dal 27 gennaio «giorno della memoria della Shoah», lo sterminio ebraico, che è la data della liberazione di Auschwitz da parte delle truppe sovietiche: un luogo simbolo, un luogo tragico ed estremo, un luogo lontano dalla vicenda politica italiana e dalle sue responsabilità (a parte per quei cittadini italiani che vi vennero deportati e, in migliaia, assassinati).

Nel 2001 in occasione del primo «giorno della memoria della Shoah» il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi in un messaggio all’allora presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Amos Luzzatto invitava a porre le celebrazioni del 27 gennaio in collegamento ideale con «il 25 aprile, anniversario della liberazione, e il 2 giugno, anniversario della scelta repubblicana». Ma l’indicazione è caduta nel vuoto e il giorno della memoria, su cui è lecito interrogarsi ma la cui valenza per il mondo della scuola e dell’associazionismo è stata fondamentale, è sembrato «superare» per volume e ingombro, pubblico e mediatico, il 25 aprile e ha poi implicato, nel 2004, la messa in calendario – in un’equiparazione culturalmente figlia dei tempi – del 10 febbraio quale «Giorno del ricordo»: «in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati». Si definisce così un’agenda di ricorrenze istituzionali in cui il 25 aprile – definito festa nazionale con il decreto luogotenenziale del 22 aprile 1946 «a celebrazione della totale liberazione del territorio italiano» – sembra passare in secondo piano a fronte di urgenze che consentano la decontestualizzazione storica delle vicende del ventennio fascista e della drammatica nascita della democrazia.

E anche se il linguaggio delle istituzioni si muove a lungo, e fin dai primi anni, all’interno di strutture retoriche consolidate le riflessioni sulla Resistenza hanno accompagnato in realtà lo svolgersi della stessa vicenda repubblicana: «La Resistenza è stato un fenomeno complesso – scrive Norberto Bobbio già in un discorso del 1955 – solo rendendosi conto di questa complessità si è poi in grado di valutare le diverse forze che hanno partecipato e il diverso peso dei risultati ottenuti». In un carteggio del 1991 tra lo stesso Bobbio e Claudio Pavone – riportato in Sulla guerra civile. La Resistenza a due voci, edito da Bollati Boringhieri e a cura di David Bidussa – ad accompagnare una riflessione durata decenni (e che Claudio Pavone elabora nella sua importante monografia del 1995 Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza) Bobbio scrive: «Si potrebbe dire che (…) tre guerre sono disposte una dentro l’altra: la scatola più grande è la guerra patriottica, la media è quella civile antifascista, la terza quella di classe (che forse sarebbe davvero meglio chiamare, come fai nel 1965, di emancipazione sociale, perché categoria più estesa)».

Ma nella seconda repubblica il discorso pubblico si fa ancora più immemore e assume un’immagine artefatta della Resistenza antifascista, unitaria e concorde, fatta da un popolo di eroi che vogliono liberare la patria dal nazista invasore, per definirla poi con l’espressione ambigua di «vulgata resistenziale» cancellandone la dialettica politica aspra e, a volte, drammatica. Di tutto questo il discorso pubblico della Seconda repubblica sedimenta una serie di luoghi comuni e la brutta espressione «vulgata resistenziale» fa così un’operazione di doppio svilimento: prima assume della Resistenza un’immagine mitizzata per poi imputarle questo come limite non solo concettuale ma, implicitamente, di legittimità politica. Eppure il 1945, anno della liberazione, è anche l’anno delle contrapposizioni irriducibili: la memorialistica e la storiografia narreranno come essa e le attese che ne scaturirono riguardassero solo una parte della realtà nazionale anche se l’insurrezione partigiana ebbe una specificità politica e militare significativa che legittimerà gli antifascisti come interlocutori «istituzionali» del re e del governo di Roma e degli Angloamericani: una riconoscimento conquistato sul campo.

Dopo quel primo 25 aprile di «festa nazionale» del ’46 l’istituzione repubblicana della «festa di liberazione» risale al 1949: dopo il referendum istituzionale, dopo l’amnistia Togliatti, dopo le prime elezioni politiche e la vittoria del fronte cattolico, e dopo l’entrata in vigore della Costituzione. Oggi, a settanta anni di distanza, una storia delle celebrazioni del 25 aprile significa ragionare sull’eredità politica e morale della Resistenza e dell’antifascismo e sui nodi a tutt’oggi irrisolti della democrazia italiana. E dunque ragionare sull’oblio e sulle memorie inquiete e non pacificate che si contendono e che danno forma all’Italia odierna.