All’Area Sismica si sta bene. L’Area Sismica è come una cave parigina (in aperta campagna!) senza esistenzialisti ma con molti cultori dell’ipotesi estremissima di un’esistenza libera. All’Area Sismica ci suona John Butcher. Lui solo. Sax tenore e sax soprano. È un’ipotesi estremissima quella che ispira la sua musica? Effettivamente sì, sempre se si resta nella logica che un’esistenza libera oggi come oggi ce la sognamo.

Non è così a-melodica la sua musica come si potrebbe prevedere in base alla sua fama di improvvisatore totale radicale. Anzi, il primo brano (che si rivelerà fondamentale) si presenta come una ballad, per quanto possa rientrare nella categoria ballad una linea di suoni, pur voluttuosa, che è esposta con uno strumento, in questo caso il sax tenore, la cui sonorità disciplinare è sempre alterata in modo acre, senza violenza però. E tenendo conto, poi, del fatto che la linea di suoni, la melodia, si perde in una sequela avvincente di modulazioni (senza passaggi di tonalità, s’intende), ostinati, aspirazioni, gorgoglii.

Ma il senso del tutto è lirico, è un lirismo spasmodico proposto all’ascolto (alla passione, alla discussione, all’elaborazione) da un cultore qualificato dell’ipotesi di un’esistenza libera. Non utopista. Realista sperimentale. Dalla rabbia meditata a certe estasi molto molto terrestri. Ci sono parti quasi classiche in questo recital di John Butcher. Esercizi che potrebbero essere di Sonny Rollins quando, alla fine degli anni ’50, sul ponte di Brooklin, ritiratosi dalle scene, suonava e suonava, si perfezionava nella tecnica e cercava, solitario, nella notte, una nuova strada per la sua musica. Parti. Butcher è un artista che si sposta continuamente da un terreno all’altro, probabilmente col desiderio di non stare confinato in nessuna zona della musica e della vita. Sequenze di note ribattute si alternano a emissioni di suoni gravi che hanno il sapore del «notturno». Sempre con questo sax che sfugge alla sonorità «pulita» come se fosse una trappola mortale.

Meditativo, Butcher. Nel procedere tra i gravi e i pochi accenni di acuti-sibili, raffinati, astrali, che sono uno dei suoi marchi di fabbrica. Considera l’ultimo Coltrane? Ebbene, sì. Anche se è uno degli improvvisatori europei che se ne sono più allontanati. Ma qui all’Area Sismica, nella parte centrale del suo brano d’esordio, che è il programma, la sintesi, l’idea, lo sviluppo dell’intero concerto, nessuno può ignorare gli echi dell’estremissimo Trane di Olatunji Concert.

Anche questo è un passaggio. Butcher su una piattaforma variabile. È un ricercatore in cammino, meraviglioso seguire questo camminare (Non hay caminos, hay que caminar…, Luigi Nono, 1987), questo inoltrarsi, questo chiedersi che cosa ci sarà dopo, oltre, e che cosa di sovversivo potrà costituire la propria esperienza. Con la campana dello strumento infilata nel microfono e premendo solamente i tasti – non c’è più lo strumento a fiato -, ottiene suoni del tutto percussivi, potrebbe essere un balafon non intonato, ma ogni tanto i suoni vengono esaltati-prolungati con l’ausilio del mixer e così si ascolta un timbro spurio, e la sequenza è una specie di volteggio astratto.

Al sax soprano la prassi meditativa di Butcher rimane. Di fondo. Ma si accentuano i suoni-soffio, aerei, si delinea, forse, un bisogno di perdizione psicotica. Appaiono gli «scherzi» (Haydn, Beethoven..), i «divertimenti» (Mozart, Bartók), semplici linee di suoni persino cantabili che però diventano subito suoni opachi, «strozzati», e poi non più emissioni ma «tocchi di fiato», punti sonori che rimbalzano, nuovamente percussivi. Un Butcher assai colloquiale. Anche quando non risparmia gli effetti e i virtuosismi avant-garde. E d’altra parte perché Berlioz poteva sbizzarrirsi nell’effettismo, e Rimsky-Korsakov, mettiamo, e un esponente dell’avanguardia odierna dovrebbe essere condannato al rigore se non all’ascetismo? Poi ci sono le reiterazioni sui sovracuti, siderali, con la respirazione circolare, e qui si pensa a Evan Parker. Ma perché pensarci? È come dire che Webern è stato il padre di Boulez e Stockhausen.

Diversa è l’«aura», per loro e per Butcher. Per Butcher è un altro modo, più irregolare, più estroso, di intendere queste escursioni sonore.
Il musicista inglese riesce a fugare il sospetto della maniera, sia pure momentanea. Il sospetto di prendere un lessico segnato all’inizio dall’arditezza ma divenuto qualche volta una scolastica, e riviverlo come un’eredità, come un patrimonio storico. Non è il tipo. Butcher è proprio un inventore. Per lui la parola free, dopo tanti anni dalla sua comparsa nella musica jazz, designa un’inedita azione creativa, del tutto politica.