Suicide, immaginare il rock come se il punk fosse già archeologia. E siamo solo nel 1970. Certo, un precedente c’era stato pure per i Suicide, e sono i Silver Apples: un duo, musica elettronica. Solo un paio di anni prima, ma fa tutta la differenza del mondo: il flower power al suo apice. New York due anni dopo è un campo di battaglia. Manson e il concerto di Altamont hanno cambiato tutto. E Alan Vega – scomparso tre giorni fa a 78 anni – e Martin Rev incarnano il come down fino alle sue estreme conseguenze. Punk prima del tempo.

Non a caso uno dei primi concerti del duo era definito (lo riporta Simon Reynolds) come una «messa punk». E poi la forma: rudimentali synth e i vocalizzi rockabilly di Vega, che sembravano strappati alla fossa comune dove giacciono le voci morte (per parafrasare Nick Tosches). Una band, per modo di dire, che era un precipitato di tutto quanto era andato a male nella cultura popolare. Fumetti, rock’n’roll, droghe, politica.
Colto però da un’angolazione completamente altra. Non ripetere il rock’n’roll di una volta, ma raccontarlo con uno spirito da futuro anteriore. Futurismo del giorno dopo.

Alan Vega e Martin Rev hanno incarnato e messo in scena l’ultima metamorfosi possibile del rock. Lo stadio terminale di una musica e un sentire. Dopo, solo ripetizioni. Geniali a tratti, ma ripetizioni. E Vega e Rev non ne facevano mistero. Sapevano cosa avevano fatto. E ne andavano fieri. Impossibile, quindi, separare la vita di Alan Vega dai Suicide.
Boruch Alan Bermowitz, nato nel 1938, si faceva chiamare Alan Suicide nell’ambito della scena artistica di New York. Le sue sculture luminose e l’adesione a movimenti come l’Art Workers’ Coalition gli permettono di conquistare una residenza alla Ok Harris Gallery di SoHo, lui che qualche anno prima si era barricato con i suoi compagni nel MoMa. Nasce come pittore, prima di darsi alla scultura. Ed è proprio quest’approccio artistico e a informare il suo rapporto con la musica.

Vedere Iggy Pop dal vivo con gli Stooges è un’epifania: Vega intuisce che il «rock» può essere un’arte ambientale; una performance. Abbandonare però le gallerie d’arte e immergersi nel circuito del rock’n’roll si rivela più problematico del previsto.
Il «rock», naturalmente conservatore non può accettare una «band» (altre virgolette obbligate) che di fatto lo dichiara «morto». La grande intuizione di Vega e Rev(erby) è che non si ricompone nulla, ci si limita a utilizzare i frammenti dei resti che si trovano per strada (letteralmente, considerato lo stato in cui si trovava New York all’epoca quando luoghi come il Mercer ribollivano di creatività e i Kiss facevano da spalla alle Dolls).

Se arrivare al 1977 è stata dura, sopravvivere agli anni del punk è ancora più difficile. Nel ’77 esce il primo disco dei Suicide, ma nessun dj osa pronunciare quel nome alla radio. Il disco, un capolavoro assoluto, influenza tutta la musica a venire. A fare l’elenco dei gruppi e dei musicisti folgorati dall’esordio dei Suicide c’è da comporre un elenco del telefono. Basti dire che (forse…) solo i Velvet ne hanno toccati di più. I concerti finiscono in risse e pioggia di bottiglie. Un altro metallic ko. Uno di quelli però che invece di chiudere un’era l’inauguravano.

Album fatto di soli capolavori nei quali spicca Frankie Teardrop, prodotto da Craig Leon e Marty Thau in soli quattro giorni, dopo le stroncature eccellenti di Robert Christgau (preso per i fondelli per altre ragioni sul live di Lou Reed Take No Prisoners), è considerato oggi, a ragione, uno dei dischi più importanti di tutti i tempi.
E nonostante torni periodicamente ai Suicide, nel 1980 Vega esordisce con il suo primo album solista, omonimo. Il brano Jukebox Babe è quasi un successo. Ma chi ha orecchie per intendere, intende. Uno di questi è Ric Ocasek dei Cars che produce, assieme ad Al Jourgensen dei futuri Ministry, il magnifico Saturn Strip.

Il successo, però, continua a eludere Vega che due anni dopo tenta il tutto per tutto con Just A Million Dreams che viene fatto a pezzi da tutti.
Negli anni Novanta, Vega lega il suo nome a progetti musicalmente sempre più radicali. Al «rock» ritorna con Cubist Blues assieme ad Alex Chilton e Ben Vaughan e collabora con i Sunn O)))), Pan Sonic, Peaches, Genesis P- Orridge, Lydia Lunch.

Agli inizi del 2000, Alan Vega e Martin Rev rimettono ancora una volta in pista i Suicide. E arrivano anche a Roma. Di spalla si portano i Pan Sonic. Loro, invece, si presentano sul palco con un ritardo mostruoso, di quelli che fanno impallidire Lee Perry. Son quasi le due e mezzo del mattino, quando salgono sul palco (se la memoria non gioca scherzi). E i Pan Sonic sembrano subito dilettanti. Vega urla contro il muro del rumore di Rev come se non ci fosse un domani. La folla, ammutolita. Un evento memorabile. Nessuna concessione alla nostalgia. White noise.
Probabilmente Alan Vega, senza mai essere stato un musicista rock in senso stretto, ne ha incarnato meglio di chiunque altro lo spirito iconoclasta e aurorale.
Dream, baby, dream.