La vita di Bill Gates è una sequela di successi e alcuni macroscopici errori di valutazione sullo sviluppo informatico. Indubbia è la sua capacità imprenditoriale che ha reso la Microsoft una delle società più importanti del pianeta e trasformato l’eterno, brillante studente fuoricorso nell’uomo più ricco del mondo. Di questo ottimo informatico e arrogante manager si raccontano aneddoti che contribuiscono ad alimentare una biografia di luci e ombre. La spregiudicatezza di acquistare per una manciata di dollari i diritti su un sistema operativo per i primi personal computer, tacendo l’obiettivo di adattarlo per le macchine portatili della Ibm, è stata una mossa che gli ha consentito di accumulare milioni di dollari e di far trovare un posto al sole a Microsoft. La sua ambizione, tuttavia, non si fermava certo a diventare un fornitore di software tra i tanti. Con scaltrezza abbandona al suo declino Ibm, trasformando nel tempo la sua società in una potenza economica.

L’INIZIALE ADESIONE all’etica hacker sulla condivisione della conoscenza è gettata alle ortiche per diventare uno dei più rigidi e strenui difensori della proprietà intellettuale, arrivando a definire, con disprezzo, gli hacker come dei comunisti intenzionati a distruggere la proprietà privata. E poi gli scontri con Steve Jobs, dove privato e pubblico si fondono perché l’oggetto del contendere era la leadership mondiale sull’informatica. Al tempo, vinse Bill Gates e per quasi venti anni il digitale è stato il mondo dominato da Microsoft. Poi la situazione è mutata: Gates ha cominciato a tirare i remi in barca. Si è sposato con Melinda French, ha fatto costruire una villa ipertecnologica per la sua famiglia, fino a ritirarsi dagli impegni operativi in Microsoft, mettendo in piedi una fondazione – La Bill&Melinda Gates Foundation – agit prop del Global Found che raccoglie fondi per progetti di lotta alla povertà nel Sud del mondo. Tra i maggiori donatori, oltre la famiglia Gates, ci sono personaggi come Warren Buffet e Mark Zuckeberg.
Il libro intervista al magnate – Sono un ottimista globale (Il Saggiatore, pp. 88, euro 8) – di Massimo Franco parte proprio dalle attività di questo fondo.
L’intervistatore, firma nota del «Corriere della Sera», ha tuttavia altre curiosità. In primo luogo, cerca di capire come l’uomo più ricco della terra non sia scalfito nella sua fede nel progresso di fronte a guerre, crescita dalla povertà in Africa e delle disuguaglianze sociali nel nord del pianeta.

MASSIMO FRANCO chiede di specificare, ma le risposte di Bill Gates sono granitiche. La storia dell’umanità è storia di un graduale e tuttavia inarrestabile miglioramento delle condizioni di vita della popolazione. I flussi migratori, la povertà, le disparità sociali sono tutti fenomeni transitori, destinati ad essere riassorbiti nel tempo. Non concede nulla alla politica – l’unico accenno è il fastidio manifestato verso Bernie Sanders, esponente democratico di cui Gates ritiene che non valga la pena parlare -, crede che i leader se già non lo sono stati, saranno prima o poi fulminati sulla via di Damasco e vedranno così la luce, cioè la necessità si di investire nel Sud del mondo per diffondere l’unica forma possibile di organizzare la società, quella fondata sul mercato, il libero commercio e la proprietà privata. E alla domanda sull’attitudine isolazionista di Donald Trump, risponde, proponendo la fiaba sulle sorti progressive della globalizzazione liberista.
SONO OTTIMISTA GLOBALE contiene passaggi molto importanti per comprendere come funziona il settore degli aiuti ai paesi poveri. Bill Gates lo dichiara senza perifrasi: i soldi impegnati in aiuti umanitari, sono investimenti a lungo termine perché favoriscono processi virtuosi di sviluppo capitalistico agevolando gli uomini e le donne desiderosi di intraprendere attività imprenditoriali. Favorire, insomma, la crescita di un habitat che riesca a giovare all’impresa privata.

QUELLA DI BILL GATES è la traduzione operativa di una concezione della lotta alla povertà dove il problema è l’assenza di una cultura imprenditoriale; in cui cioè le migrazioni, ritenute ormai fenomeno biblico, si combattano aiutando i poveri a rimanere a casa loro, garantendo le condizioni appunto di uno sviluppo economico autoctono. Ma per questo, serve una partnership tra stati nazionali e privati, a patto però che le idee guida siano conformi a uno spirito manageriale.
Alle timide obiezioni di Massimo Franco sulla difficoltà di nutrire tanto ottimismo, Bill Gates declama il mantra che l’umanità è sempre progredita, anche quando sembrava che le lancette delle storia andassero all’indietro. La medicina non si è mai fermata, le malattie sono regredite, le patologie ritenute insormontabili hanno avuto, nel corso del tempo, cure adeguate. Il sapere non si è mai fermato. Il problema, per Gates, è piuttosto scoraggiarsi.

IL SUO MODUS OPERANDI esprime un filantropismo 2.0 dove l’ingerenza dello Stato è ridotta al minimo indispensabile e dove ogni progetto a sostegno delle popolazioni segue i dettami manageriali del rapporto costi-benefici. Basta non spaventarsi, perché il ritorno degli investimenti non è immediato. Ci penserà il lungo periodo a dimostrare che il bene vince sempre. A tanto ottimismo vale sempre una parafrasi di una nota espressione di Lord Keynes: non è sicuro che nel lungo periodo le cose vadano così, ma è certo che nel breve periodo ci penserà la morte a dare la soluzione.