Una vista di rocce e sabbia nerissime, attraversate da una striscia di verde squillante. Fin dalle prime immagini, Gareth Edwards imprime a Rogue One il gusto per i toni scuri, i bruni, le luci basse e per i paesaggi naturali che aveva usato con notevole sapienza drammatica nel suo film più bello, Monsters, e anche in Godzilla.
Da questa Finlandia galattica, ai deserti turriti come quelli di Monument Valley, dai cui massicci emergono i contorni di fisionomie enormi, alle giungle e alle spiagge punteggiate di palme che ricordano gli atolli turchesi in cui si combatteva il Giappone sul fronte Pacifico, Edwards dà a questo suo Star Wars -il primo detour dalla colonna portante delle trilogie- uno sfondo «realistico».

Più realistico, sporco – specialmente rispetto al celebratorio retro pop di J.J. Abrams – anche il tono del film che sembra attingere dall’immaginario del cinema di guerra piuttosto che da quello del fumetto e dei serial avventurosi che avevano ispirato il giovane George Lucas.
Il papà di Star Wars che, vendendo la sua creatura all’Impero Disney ne ha virtualmente garantito l’eternità e la moltiplicazione infinita, non aveva fatto segreto del suo scarso entusiasmo per The Force Awakens. Di questo capitolo «extra», potrebbero piacergli lo spirito vagamente guerrigliero (è ambientato nel cuore della Rebellion), ma soprattutto il gusto con cui illumina un preciso – finora sconosciuto – dettaglio narrativo dell’ intricatissima trama che, dalla metà degli anni settanta, è stata un’estensione della sua fantasia, e che ogni tanto immagino disegnata – come una pittura rupestre destinata ai posteri- in qualche sotterraneo segreto della Marin County, nella California del Nord, dove Lucas è nato a vive tutt’ora.

La «trovata» della storia di Rogue One (e l’unico dato ingegnoso di una sceneggiatura scialba, nonostante sia firmata da due nomi importanti come Chris Weitz e Tony Gilroy) suggerisce infatti perché la Death Star, l’arma di distruzione totale dell’Impero, verrà neutralizzata in quel modo, in Una nuova speranza. Cronologicamente parlando, siamo infatti tra il mood apocalittico, nichilista, di La vendetta dei Sith, il terzo capitolo della seconda trilogia, e quello più esuberante, venato di ottimismo del primo capitolo della prima, e il film originale della Saga, diretto da Lucas nel 1977.

Lo scienziato Galen Erso (Mads Mikkelsen), principale architetto della Death Star, ha disertato l’Impero per non portare a termine la costruzione di quell’ordigno di morte, ritirandosi a vita contadina, con moglie e figlioletta, su una luna lontana, dove però viene scovato da uno sgherro dell’Impero, Frennic (Ben Mendelsohn), che lo riporta indietro a completare l’opera. Separata dai genitori, sua figlia Jyn, cresce sotto la protezione di un condottiero ribelle, Saw Gerrera (Forest Whitaker) e si trasforma in una solitaria avventuriera spaziale, che vive di espedienti e ha il volto intenso dell’attrice inglese Felicity Jones.

Pensando che Jyn sia l’unico modo per arrivare a Galen, anche se la ragazza non lo vede da anni, i Ribelli la catturano e la convincono/costringono a mettersi sulle sue tracce insieme a Cassian Andor (l’attore messicano Diego Luna), a un pilota disertore (Riza Ahmed) e a un droide imperiale riprogrammato, K2SO. Dalla loro parte anche due guerrieri che hanno l’aura di Jedi stracciati – uno cieco ma abilissimo nelle arti marziali, l’altro corpulento e con i capelli lunghi – e alcuni commilitoni di Cassian.

Vista dall’insolito, più disperato, «povero» punto di vista della resistenza, la missione prevede numerosi scontri armati, l’apparizione di due famosi personaggi della saga ricreati al computer e un gran finale tra spazio, acque blu, spiagge e un cielo giallo inghiottito da un orizzonte in fiamme.
Trattandosi di una trama a sé stante, Rogue One può permettersi di fare delle scelte più drastiche sul destino personaggi, il che è interessante. Edwards è un regista che, anche alle prese con un blockbuster, riesce a comunicare una certa visione originale (con l’underground ribelle che ricorda un polveroso, macilento Medio oriente, il suo film ha un sapore di presente innegabile; è anche più dark e meno divertente degli altri Star Wars), ma le sue scene d’azione sono prive di ritmo, immaginazione e coreografia.

E lo script non aiuta il senso di fiacchezza che affligge la prima parte. Alcuni fan del film, in Usa, lo hanno paragonato a uno degli episodi più amati della trilogia originale, L’impero colpisce ancora.
Anche se privo del senso d’avventura, del gusto per la mitologia e la «storia» che rendevano così appassionante il film di Kershner (sceneggiato da Lucas con il prezioso aiuto di Lawrence Kasdan e Leigh Brackett) di quel film Rogue One condivide una certa non pretenziosità, e una sua vocazione autonoma, che nemmeno lo strettissimo controllo Disney su queste nuove declinazioni della franchise ha potuto soffocare. Almeno in quel senso rispetto alla qualità corporate/museale di Il risveglio della forza, è una svolta rinfrescante.