Veramente i 5 Stelle sarebbero disponibili a votare un candidato proposto dal centrodestra purché considerato istituzionale e super partes? Questa è la domanda che aleggia al secondo giorno di votazioni sulla truppa grillina.

La mossa scompiglierebbe l’alleanza col Partito democratico e aprirebbe scenari politici nuovi sul fine legislatura. Il fantasma della fascinazione salviniana del M5S, del rifugio nella vecchia alleanza pur di sfuggire al sostegno a Mario Draghi, si materializza ogni volta che in Transatlantico un pentastellato si intrattiene a parlare con un leghista. Addirittura, ad un certo punto viene segnalato con sospetto che quattro su cinque dei vicepresidenti del M5S si trovano a pranzo nello stesso ristorante in cui stanno mangiando anche Matteo Salvini (tavoli separati ma attigui). E l’AdnKronos riferisce di un vero e proprio scouting sui grillini da parte dei leghisti.

La guerra di nervi ha a che fare con le scelte della coalizione e dunque non puà che precipitare nel vertice pomeridiano. Giuseppe Conte lancia messaggi al centrodestra perché non vuole Draghi. Nega di voler porre veti, ma di fatto sbarra più nettamente di ieri la strada al presidente del consiglio. «Al timoniere, a cui abbiamo affidato la nave in difficoltà, chiediamo di restare al comando», dice prima di entrare alla Camera per vedere Enrico Letta e Roberto Speranza. E ancora, quasi a rispondere al mantra del segretario dem sulla necessità di «proteggere Draghi», il leader 5 Stelle afferma: «Il mio ruolo non è difendere il destino dei singoli ma l’interesse del paese».

Proprio sul nome di Draghi, la sera precedente, c’è stata la prima vera discussione esplicita con Luigi Di Maio. Conte ha ribadito la necessità di lasciare lavorare il governo e il ministro degli esteri ha replicato a proposito della necessità per il M5S di restare sempre «centrale» all’interno dei giochi politici. Se dovesse aprirsi una nuova fase con l’elezione di Draghi al Colle e la nascita di un nuovo esecutivo, è il ragionamento di Di Maio, allora dobbiamo essere noi a trainare questo processo. Ma è esattamente per questo motivo che Conte non può permettersi di sostenere Draghi: per strappare il M5S allo schema Di Maio e sottrarlo al quarto governo della legislatura. Un anno fa, nei giorni che portarono alla nascita del governo Draghi, l’ex capo politico agì più o meno in questo modo. Attese l’esito delle trattative a valle delle convulse mediazioni, presidiando lo spazio del governo e tenendo sotto controllo la spartizione cariche. Il ministro degli esteri ha capito che per mettere a valore l’ampia riserva di voti grillina non serve presidiare la caotica assemblea dei parlamentari, dove non tutti lo amano e nella quale sarebbe strutturalmente impossibile esercitare una egemonia completa. Da questo punto di vista Di Maio ha imparato la lezione di Gianroberto Casaleggio, ha capito che bisogna «prosperare nel caos», lasciare che la base si sfoghi e poi arrivare a sbrogliare la matassa. È questo tipo di manovre che Conte sta cercando di impedire, scommettendo sulla sostanziale tenuta del gruppo parlamentare. Per questo i suoi notano con soddisfazione, a fine giornata, che l’unica voce di dissenso di fronte allo stop di fatto a Draghi chiesto dal leader grillino viene dal deputato Gianluca Vacca, considerato vicino a Di Maio. «Lavoriamo per garantire ai cittadini un alto profilo che rappresenti davvero tutti», dice la capogruppo al senato Mariolina Castellone, che ha partecipato al tavolo della coalizione.

«L’Italia non ha tempo da perdere – sono le parole di Conte a fine giornata – Non è il momento del muro contro muro». Dai vertici trapela soddisfazione: i tre paletti posti dal leader erano il ritiro di Silvio Berlusconi, Draghi a Palazzo Chigi e l’apertura del dialogo col centrodestra per un «nome condiviso». Archiviata la prima condizione, i 5 Stelle sono convinti di muoversi verso le altre due. Il che, ragionano a tarda sera dovrebbe depotenziare il rischio che si possa decidere di votare in difformità dagli alleati, visto che «si arriverà a un presidente scelto a larghissima maggioranza». Nomi non ne fanno, ma quelli rimasti sul tavolo dell’«Indovina Chi» presidenziale e che rispunteranno al momento delle trattative con il centrodestra sono sempre di meno: fuori dalla rosa di Salvini è rimasta Casellati, che il M5S ha già votato come presidente del senato. Ma Conte non disprezzerebbe Paola Severino.