«Le guerre sono grandi giochi. Ragazzotti viziati spostano soldatini di piombo su variopinte carte geografiche. Vi inseriscono il ricavato. Poi vanno a dormire. Le mappe volano nei cieli come aeroplani di carta, si posano sulle città, sui campi, sui monti e sui fiumi. Coprono la gente, ridotta a un ammasso di figurine che più tardi grandi strateghi smisteranno altrove, dislocheranno di qua e di là, insieme alle loro case e ai loro stupidi sogni. Le carte geografiche di dissoluti condottieri ricoprono quello che è stato, sotterrano il passato. Quando il gioco finisce i guerrieri riposano. È a quel punto che arrivano gli storici, a trasformare i giochi crudeli di chi non è mai sazio in menzogne alla moda. Viene dunque scritta una nuova Storia, la quale sarà annodata da nuovi condottieri su nuove carte, perché il gioco non abbia mai fine».
«Romanzo-mondo» che definisce un’intera mappa dell’esistenza seguendo le cicatrici che le tragedie del Novecento hanno impresso sulla storia europea, Trieste (Bompiani, pp. 444, euro 19), della scrittrice e intellettuale croata Daša Drndic, è prima di tutto un libro contro l’indifferenza. E questo perché, mescolando tra loro numeri, dati, elenchi di nomi, forme poetiche, sogni, esplosioni emotive, descrive, osservato da quella che è stata per secoli la terra di confine compresa tra Gorizia e Trieste, il contesto nel quale, nel cuore stesso della cultura occidentale, fu dapprima possibile l’ascesa al potere di fascisti e nazisti e quindi la costruzione dei campi di sterminio, l’Olocausto e il massacro di altri milioni di russi, polacchi, zingari, diversi e oppositori di ogni tipo. Miti nazionali, identità, guerre si sedimentano per secoli fino a rendere possibile il trionfo scientifico della macchina di morte nazista.

La storia, le molte storie che attraversano il libro escono una dopo l’altra dalla cesta rossa in cui fruga oggi Haya Tedeschi, una donna ormai prossima alla fine della sua vita che, nata in una famiglia ebrea che si era convertita al cattolicesimo e aveva in parte abbracciato il fascismo, aveva avuto un figlio da un ufficiale delle SS di stanza alla Risiera di San Sabba a Trieste. Haya ha trascorso la sua intera esistenza senza mai prender parte, come una tragica spettatrice di avvenimenti che l’hanno lambita senza mai toccarla fino in fondo. Solo il tentativo di ritrovare quel bambino che le era stato sottratto poco prima della fine della guerra perché destinato al progetto nazista del lebensborn, atto a selezionare una nuova generazione di piccoli «ariani», la metterà almeno in parte di fronte alla realtà: non si era mostrata solo indifferente nei confronti delle vittime di allora, ma aveva amato l’ufficiale Kurt Franz – personaggio realmente esistito – senza chiedersi chi fosse veramente quel tedesco alto e biondo e che solo mezzo secolo più tardi scoprirà essere stato tra i peggiori aguzzini attivi nella ex fabbrica triestina trasformata in campo di sterminio.

DASA DRNDIC

Chiudendo gli occhi di fronte alla realtà, Haya è sopravvissuta. Non ha seguito invece la stessa sorte quell’universo di confine in cui è nata, dove ogni cosa veniva declinata in decine di lingue – l’italiano, lo sloveno, il tedesco, l’ungherese, l’ebraico… -, a comporre un’identità cosmopolita di cui Trieste è stata a lungo l’epicentro e il simbolo stesso. La resa della città all’indifferenza, la fine della cultura evocata dalle poesie di Umberto Saba, segnano una strada senza ritorno, un orizzonte senza possibilità alcuna di redenzione: un mondo scomparso di cui resta solo una foto ingiallita e sottratta all’incendio del Vecchio continente. Perché, come scrive Drndic, «il Confine è la terra dei fantasmi che ululano alla ricerca di una propria corporeità».

La protagonista del romanzo, Haya Tedeschi, e la sua famiglia non prendono posizione di fronte all’orrore che cresce intorno a loro, cercano di vivere tranquillamente nonostante tutto. Oggi come allora, ad esempio nei confronti della mancata accoglienza dei migranti da parte dell’Europa, quanto pesa l’inerzia di quelli che lei definisce nel testo, in inglese, come «bystander» (spettatori)?
Trieste non è solo un romanzo sull’Olocausto e la riflessione sui bystanders è uno dei temi principali che stanno alla base del libro: ritengo sia qualcosa che ci riguarda sempre. Ho cercato di mettere in evidenza come tutto ciò abbia a che fare con quanto accade intorno a noi anche al giorno d’oggi, e di mostrare come siamo fondamentalmente indifferenti a tutto quello che non ci riguarda direttamente o ci minaccia in prima persona. La prima idea per il libro mi era venuta dopo aver letto un pamphlet, trovato in rete, che raccontava la storia di una famiglia ebrea che si era convertita al cattolicesimo negli anni Trenta e di cui alcuni membri si erano iscritti al Partito fascista ed avevano lavorato per l’amministrazione tedesca dopo il 1943. Di conseguenza questa famiglia non aveva davvero provato gli orrori della guerra sulla propria pelle, aveva trovato un modo per salvarsi. In quel pamphlet non c’era alcun riferimento a ciò che era accaduto alle vittime di fascisti e nazisti, ai vicini e agli amici di questa famiglia, gente che stava passando sotto le loro finestre nei vagoni da bestiame verso i campi di concentramento, o che veniva imprigiona a San Sabba. Non solo non c’era quasi alcuna compassione per l’altro, non c’era nemmeno coscienza dell’altro. Dunque ho cominciato a costruire la mia storia partendo da questo.

Nel suo libro compaiono, uno per uno, i nomi dei circa novemila ebrei deportati dall’Italia o uccisi nei territori occupati dagli italiani tra il 1943 e il 1945. Una sorta di tragico «memoriale» per un paese come il nostro che non ha mai conosciuto una propria Norimberga e che perciò ha a lungo sottovalutato il proprio ruolo nell’Olocausto?
Se lo dice lei, va bene. In realtà, non è stata solo l’Italia a non essere disposta ad affrontare gli eventi più oscuri del proprio passato, si tratta di una tendenza che ha riguardato anche molti altri paesi. Col tempo, la Germania è forse quello che si è spinto più in là nel tentativo di fare piena luce sul proprio fardello relativo alla Seconda Guerra Mondiale. Al contrario, l’Austria ha mostrato riluttanza, e per molto tempo, a fare un passo netto in questa direzione: come è stato ed è ancora oggi per la Croazia. Si tratta di un affare pericoloso, soprattutto perché questa indisponibilità ad affrontare il passato contribuisce ad alimentare il revisionismo storico che, specie in tempi di crisi, rischia di funzionare come un fantasma lasciato nella bottiglia che sul più bello tira fuori qualunque cosa.

Il «lebensborn», il vasto progetto messo in atto dai nazisti per creare una generazione di bambini selezionati razzialmente, è per molti versi al centro del romanzo: il piano del Terzo Reich per la conquista del mondo passava innanzitutto per il controllo del corpo delle donne? Qualcosa che sembra ritornare con l’orizzonte totalitario incarnato da fenomeni come l’Isis?
Affrontando il tema del progetto Lebensborn che era stato elaborato dai nazisti, ho cercato in realtà di riflettere sul tema dell’identità che oggi si fa sentire con particolare forza nei paesi che si sono definiti in termini nazionali più di recente, come quelli che sono emersi dalla ex Jugoslavia. In queste realtà, soprattutto l’identità nazionale e quella religiosa, imposte da chi si trova al potere, finiscono per essere messe al servizio della costruzione di una coesione sociale interna che finisce per escludere gli altri e i diversi, che ancora una volta conduce al rafforzamento di sistemi autoritari e/o totalitari che negano i diritti umani fondamentali. Quanto alla minaccia dell’Isis, oggi si potrebbe forse guardare alle cose in questi termini, ma all’epoca in cui ho scritto il libro, oltre otto anni fa, le vicende relative allo Stato Islamico non erano ancora diventate così centrali e dominanti nel dibattito internazionale.

I protagonisti del libro raccontano come, dopo una prima incertezza, in Germania si sia fatto molto per non chiudere il capitolo della memoria dei crimini del nazismo, istituendo banche dati e un apposito archivio giudiziario a Ludwigsburg, vicino a Stoccarda. Come ricordava lei stessa, nel suo paese, la Croazia, dove il genocidio trovò zelanti collaboratori, non si è fatto altrettanto. In questo contesto che effetto le fa vedere che a Spalato c’è ancora oggi chi dipinge un’enorme croce uncinata su un campo di calcio, come accaduto nei giorni scorsi in occasione del match contro l’Italia?
Sono esattamente questi i pensieri che avevo in testa mentre scrivevo il libro. Il passato non è mai soltanto il passato. Può essere il nostro presente o addirittura il nostro futuro: tutto dipende dal modo in cui ce ne occupiamo e se ne sono occupate le generazioni che ci hanno preceduto. Se cerchiamo di seppellire quanto è avvenuto, di dimenticarlo, non faremo altro che aiutarlo a tornare per ricordarci che è ancora vivo e vegeto. Se invece scegliamo di misurarci con tutto ciò, e non abbiamo paura di guardare in faccia costantemente la storia che ci ha preceduto, per quanto brutto, orribile e malvagio sia il suo volto, come anche, a volte, nobile, ricco e gratificante, non ci capiterà più di avere della grandi e brutte sorprese. Nei giorni scorsi, quando è avvenuto l’inammissibile «incidente» della svastica non ero in Croazia, ero già arrivata in Italia, ma spero che il governo reagisca in maniera molto risoluta. Se così non fosse, questo sì sarebbe un segno di allarme serio.