corpo
Se il mondo fosse schiacciato, su un piano infinito che non concede fughe, «la terza dimensione sarebbe inimmaginabile per i nostri cervelli di carta». Ecco perché, scrive Mircea Cartarescu, i personaggi in una fotografia sono immobili, rigidi, non tentano fughe e non hanno fiato. Anche nell’edificio della letteratura, quasi sempre, è così. Ma nella letteratura capita che anche nel più maldestro dei romanzi, una figura prenda a muoversi e fuoriesca, definendo o rovinando un intero immaginario, «là fuori, dove noi lettori ci sentiamo al sicuro». Ma in una fotografia, no. La possiamo riprodurre, tagliare e incollare, ma il nesso che quei personaggi lega o slega non acquista per questa sola ragione uno spessore, un corpo. La loro mente, osserva Cartarescu, «non è sufficientemente complessa per farli vivere (…) ci fanno necessariamente pensare ai grandi infermi o alle persone che hanno subito una lesione al loro parietale».

Non riconoscono che una metà del loro corpo e questo perché non conoscono due dimensioni: la profondità e il tempo. Solo la prossimità lineare li guida, ma tutto ciò che viene da un mondo/corpo esterno, che interferisse con loro – uno sguardo, una goccia, una parola – verrebbe «reinterpretato con i dati di quel mondo». Così, anche se qualcosa di più complesso, percorresse il loro mondo – come nella Flatland di Abbott – non avrebbe modo di farli uscire dal sistema che non solo ingabbia, ma li costituisce. Il sistema binario non compirebbe in salto, non si aprirebbe al terzo, escluso e incluso al contempo: il lettore.

Mircea Cartarescu ci racconta che cosa accadrebbe se, d’improvviso, un corpo estraneo si componesse o almeno tentasse di farlo, dentro il mondo «flat», senza venirvi scaraventato da un fuori. Un corpo che, nel comporsi e ricomporsi delle sue membra, riuscirebbe forse a lambire qualcosa che in altri tempi avremmo chiamato «anima». Siamo così diversi, noi che ci sforziamo di darne una terza a chi ha soltanto due dimensioni, da quei personaggi incompiuti ma impressi su una crosta di azotato d’argento? Uomini di una terza dimensione, non ne capiamo una quarta: il tempo.

«Scrivendo, pensavo di tatuare un corpo. Esaurito ogni lembo di pelle, ho scoperto che potevo tatuare gli organi interni. Con mia grande sorpresa ho poi capito che anche l’anima la possiamo tatuare». Così si esprimeva Mircea Cartarescu, alla recente presentazione del suo Abbacinante all’ultimo Salone del libro di Torino. Il mondo desertificato e piatto che si dispiega sotto gli occhi di Vasile e le mille ombre senza corpi e gli altrettanti corpi senza ombra, ma densi – questi sì – di nervatura e pensiero che si succedono nella Bucarest degli anni ’50-60 fanno infatti da tramatura all’ultimo lavoro dello scrittore romeno, Abbacinante. Il corpo (a cura di Bruno Mazzoni, Voland, pp 572, euro 25), secondo volume di una trilogia iniziata con L’ala sinistra (uscita nel 2008, sempre da Voland, mentre per gennaio si attende la pubblicazione del conclusivo, L’ala destra).

«Tu che leggi ora, distesa sul divano», scrive Cartarescu, richiamandosi a una celebre poesia di Arghezi, «questo libro illeggibile, che non dice nulla, che non vale nulla, non vuole nulla e non significa nulla, percorri insieme a esso, simile a una barca a vela, il piano trasparente del nostro mondo».

Che cosa accadrebbe ai corpi descritti in questo romanzo, strepitoso quanto visionario, se fossero unicamente distillati in un personaggio e non, come invece accade, incarnati – e tatuati – in forme di parole? Accadrebbe quello che accade ai personaggi di un qualsiasi romanzo: soffrirebbero di un dolore mediato, privi di libero arbitrio, senza mai sapere, in altri termini, dalla loro pagina. Quella pagina da cui deborda, invece, ciò che potremmo chiamare il meta-corpo della mente narrante al centro dell’Abbacinante di Cartarescu e il «pensiero che pensa il pensiero», cuore cavo contro cui questa mente-corpo protagonista combatte, come la crisalide – immagine chiave della trilogia – col suo corpo non ancora formato. Come già con Nostalgia, Cartarescu si dimostra autore capace di una poderosa prova di pensiero, oltre che di una densità compositiva e intertestuale non comuni.