Come in una foto che ha il suo punctum, anche Sanremo 2022 ha quei particolari che svelano la sua essenza non dichiarata, e straniante. Questo Sanremo è come uno specchio rovesciato che, proprio perché messo al contrario, mostra chi è davvero, al di là dei lustrini, dell’autopromozione di rete, dell’ubriacante autocelebrazione. Partiamo dalle canzoni, che dovrebbero essere il centro di tutto. Il bilancio è quello di una creatività appannata e ripetitiva.

A PARTE Mahmood e Blanco, che cantano con convinzione i brividi di un amore assoluto (però quel falsetto, vi prego basta), salvando Elisa per la bravura, Rettore e Ditonellapiaga per l’energia, La rappresentante di lista per gli sberleffi (ma perché queste ragazze si scelgono nomi così?), dopo aver omaggiato le vecchie glorie come Morandi, Zanicchi e Ranieri, che almeno sanno stare sul palcoscenico, anche se la voce non è più quella di un tempo, il resto non lascia il segno. Se un festival della canzone, su 25 brani non sa trovarne due o tre pregnanti, ti chiedi che cosa ci sta a fare. E poi ti fai una domanda. È la direzione artistica a non saper scegliere o il Paese che fa fatica a esprimersi?

SEMBRA che i giovani siano tornati a guardare e commentare Sanremo, soprattutto sui social, non perché ne sono conquistati, ma per assistere a uno spettacolo trash, quindi a qualcosa di cui ridere. Praticare il trash è un’arte, non ne resti imbrigliato solo se non lo prendi sul serio, e in questo Sanremo ci si prende molto sul serio, a cominciare dalla moglie di Amadeus, Giovanna Civitillo, che nella prima serata si è seduta in prima fila con un abito così giallo limone che la faceva spiccare come un faro su tutta la sala, sul suo vicino di poltrona, il direttore di Raiuno Stefano Coletta, sul marito conduttore, come se fosse lei la vera padrona del festival. L’unica che ha capito davvero come si maneggia il trash è Orietta Berti che, imbrigliata nel marchettone per la nave da crociera, esagera oltre ogni dire, si mette vestiti carioca che la fanno sembrare un incrocio fra una botte e il coronavirus, copricapi chiassosi, volant dove non dovrebbero andare, e poi sbaglia nome di Ermal Meta, e lo chiama Metal, perché lei è così, autentica, è come se dicesse Siamo in una fiera e quindi facciamo la fiera.

L’ALTRO SPECCHIO rovesciato è quello delle donne, presenza confinata in una accompagnatrice diversa per ogni sera. Dopo una Ornella Muti silente, e poco ferrata sui problemi ambientali di cui voleva parlare, dopo una Lorena Cesarini buttata allo sbaraglio, senza nessuno che le spiegasse che i tempi televisivi non sono come quelli del cinema o del teatro, che il palcoscenico di Sanremo o lo aggredisci o ti ammazza, arriva Drusilla Foer, personaggio creato anni fa dall’attore Gianluca Gori, e siamo all’apoteosi dello specchio rovesciato. Drusilla ha spiccato per ironia, eleganza, stile, tenuta della scena, sobrietà, intensità del monologo incentrato sulla unicità, e quindi singolarità, di ogni essere umano (e siccome era un testo intelligente lo hanno mandato all’una e quaranta). Siamo quindi al paradosso che, a Sanremo, noi donne dobbiamo affidarci a un uomo travestito da donna per ritrovare un po’ di noi stesse. È questa la rappresentazione delle donne d’Italia? Siamo così poco incisive noi italiane? È vero che ormai va di moda la fluidità di genere, ma per il momento saremmo ancora oltre la metà della popolazione. E poi, che problemi hanno i sarti e le/gli stylist con noi? Perché conciano le poche cantanti (9 su 25) come delle maschere (Rettore, La rappresentante di lista), o le infilano in maldonanti abiti tenda (Elisa), in liseuse da nonna (Emma), in spacchi e oblò avvilenti (Giusy Ferreri), al punto che solo una, Noemi, non sembra una caricatura?
Non ci resta che tifare per Sabrina Ferilli, che salirà sul palco stasera. Sabrina, lo so che ti chiediamo tanto, ma cerca di raddrizzare sto specchio.