Le forme elementari della vita religiosa di Émile Durkheim è uno strano classico, che in Italia ha avuto una vicenda editoriale accidentata e una presenza alterna nelle librerie. In primo luogo si potrebbe notare come la sua traduzione sia stata relativamente tardiva, risalendo solo agli anni Sessanta, come del resto quelle delle opere maggiori del padre della sociologia francese: Il suicidio e La divisione del lavoro sociale. L’edizione italiana di Le forme elementari della vita religiosa, nella traduzione di Claudio Cividali, compare nel 1963. La cura del volume era stata affidata a Remo Cantoni, filosofo di orientamento fenomenologico, appartenente alla «scuola milanese» di Antonio Banfi, il cui interesse per tematiche di tipo antropologico-culturale, come attesta il suo Pensiero primitivo (1941), aveva un carattere niente affatto episodico. L’editore, poi, non a caso, era Comunità, che in quel decennio, nel solco dell’intrapresa olivettiana, dispensava il proprio sforzo per acclimatizzare in Italia prospettive teoriche fino a quel momento accolte solo marginalmente. La traduzione di Cividali, dopo che da anni l’austero ed elegante volume di Comunità non era più disponibile, è stata ristampata da Meltemi nel 2005, a cura di Massimo Rosati. Ed è proprio quest’ultima edizione che l’editore mimesis (euro 36) ripropone a quasi una decina d’anni di distanza, nella speranza di fornire una dimora duratura alla più controversa fra le opere di Durkheim.

Riconoscimenti tardivi

Le vicende editoriali sommariamente riassunte possono risultare emblematiche dell’atteggiamento «tiepido» che nel nostro paese si è manifestato, nel corso del tempo, nei confronti di Durkheim. Nonostante l’intensità degli scambi culturali con la Francia, nei decenni a cavallo fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento in Italia le scienze sociali avevano manifestato scarso interesse per l’opera di Durkheim. Da questo punto di vista, le propaggini del positivismo lombrosiano e postlombrosiano o gli approcci elitisti à la Gaetano Mosca o Guglielmo Ferrero esprimevano una maggiore ricettività verso la psicologia delle masse di Gustave Le Bon o le teorie sull’imitazione di Gabriel Tarde, autore la cui fama oltralpe sarebbe stata oscurata dall’autorevolezza del magistero durkheimiano e verso il quale da qualche tempo, sulla scia della rivalutazione operata da Gilles Deleuze, si registra una notevole crescita di interesse (come testimonia, per esempio, la recente traduzione di Monadologia e sociologia per i tipi di ombre corte). In seguito, il clima culturale improntato a storicismi e neoidealismi vari, programmaticamente diffidente nei confronti delle scienze sociali, non si prestava a promuovere un concreto interesse per l’opera durkheimiana. Inoltre, ormai la Germania aveva soppiantato la Francia come terreno di caccia per le novità teoriche. E da lì che provenivano le maggiori seduzioni – da Weber a Husserl passando per Simmel – per coloro che intendevano sottrarsi a un’atmosfera intellettuale incline a un compiaciuto provincialismo.

Negli anni Sessanta, però, con il consolidarsi della sociologia come ambito accademico, d’emblé Durkheim passa da autore pressoché sconosciuto a classico, collocato accanto a Weber, anche se come socio di minoranza, nell’olimpo dei padri della disciplina. L’immagine prevalentemente veicolata è quella del teorico dell’ordine proposta dalla sintesi struttural-funzionalista facente capo a Talcott Parsons, oppure del sacerdote laico dei valori repubblicani troppo pieno di certezze per risultare affascinante. Un autore, quindi, per sociologi, ma ben poco attraente per chi si colloca al di fuori di quel perimetro disciplinare.

L’anno scorso ricorreva il centenario della pubblicazione di Le forme elementari della vita religiosa. Ce lo ha ricordato un numero monografico della rivista «Etnografia e ricerca qualitativa» curato da Gianmarco Navarini. Riletto a un secolo di distanza, il libro colpisce per le sue ambizioni teoriche spropositate, per la strana combinazione fra l’estrema specificità dell’oggetto considerato, i culti totemici delle popolazioni australiane, e il carattere parossisticamente universale delle conclusioni analitiche che da esso si intende trarre. Se il punto di partenza è rappresentato dalla letteratura etnografica che si era applicata ad analizzare le società autoctone del più remoto fra i continenti, la prospettiva da cui si guarda a essa è tutt’altro che etnografica. A interessare Durkheim non è la varietà culturale o l’irriducibile singolarità dell’«altro» quanto la possibilità che offre per accedere allo «stesso» formulando così generalizzazioni sociologiche in senso forte. Del resto, a spingerlo a un «viaggio attraverso il proprio studio», per parafrasare de Maistre, in cui senza mai abbandonare fisicamente la Francia approda alle selvagge lande dell’Australia non è la ricerca dell’esotico o l’evasione dalle problematiche intorno a cui fino ad allora era ruotata la sua ricerca ma l’esigenza di trovare risposte a domande inevase e a questioni, epistemologiche e politiche, lasciate in sospeso.

La sociologia, per essere una scienza, deve assumere un proprio specifico referente, un oggetto esclusivo di indagine che si manifesti in tutta la sua tangibilità. Diversamente, si esporrebbe al rischio della colonizzazione da parte di uno scomodo e invadente vicino che ha nome psicologia (e qui risiede parte della violenta controversia con Tarde). Di conseguenza, la dimensione sociale, che allo stesso tempo trascende e costituisce gli individui, deve essere colta su un registro di oggettività, di esternità rispetto ai singoli attori, che verrebbe compromesso nel caso ci si limitasse a riferirlo a processi di aggregazione mimetica o conformismo gregario.

Regressione all’originario

Per afferrare la quidditas del sociale, la ricerca durkheimiana si orienta così verso la religione: «Poiché i principali aspetti della vita collettiva sono cominciati come aspetti particolari della vita religiosa occorre evidentemente che la vita religiosa fosse la forma preminente e quasi un’espressione abbreviata di tutta la vita collettiva». Per cogliere la verità sociologica della religione, il nucleo invariabile infinitamente riarticolato nelle singole esperienze storiche, Durkheim si rivolge al totemismo degli aborigeni australiani. La regressione all’elementare, all’originario, è motivato con l’esigenza di accedere a una tavolozza dove i colori sono ancora distinti e le variabili meno intrecciate. La religione è definita in termini topologici, come un complesso di credenze e riti che stabilisce una differenza fra due ambiti, il sacro e il profano. La vita profana del «selvaggio» scorre nella prosa di occupazioni ripetitive, monotone, volte a soddisfare i bisogni primari, spezzata dai momenti fatidici del rito, dell’aggregazione collettiva, in cui il contatto con la poesia del sacro apre all’eccitazione, alla fuoriuscita da sé, all’effervescenza, termine di impronta vitalista a cui nelle Forme elementari si ricorre costantemente quando per evocare le epifanie del sociale. Lo spazio del sacro, infatti, è quello in cui gli attori sperimentano la trascendenza della società rispetto a loro stessi. Si tratta di una delle più note tesi di Durkheim, quella secondo cui il divino che si farebbe tangibile nei riti altro non sarebbe che la società nei confronti della quale i singoli membri avvertono dipendenza. Essa appare come una natura che a loro si oppone ma di cui partecipano, che dall’esterno impone codici e modelli, sacrifici e modi di essere, che afferma la supremazia dei propri interessi su quelli dei singoli. Dietro ogni dio si cela la società, quindi.

Si diceva delle ambizioni esorbitanti di Le forme elementari, che non si limitano all’ambito della sociologia della religione. Già dall’introduzione Durkheim indica come il riferimento alle rappresentazioni collettive possa condurre al superamento di controversie secolari, come la classica opposizione gnoseologica circa l’origine, empirica o apriori, delle categorie. La coesione collettiva, infatti, riposerebbe non solo sul conformismo morale ma anche quello logico, riguardante le categorie di percezione e valutazione della realtà. La sociologia, quindi, diviene necessariamente socio-logica, aprendo la strada a uno stile teorico che sarebbe stato riproposto in tempi recenti da Pierre Bourdieu. Riprendendo l’impostazione di un articolo pubblicato con Henry Hubert e il nipote Marcel Mauss, e riedito in Italia in un volume dal titolo Le origini dei poteri magici (Bollati Boringhieri, euro 11), Durkheim evidenzia così come le opposizioni claniche e totemiche si pongano alla base delle opposizioni concettuali e della ripartizione degli oggetti e dei fenomeni in generi e specie. Le origini di una nozione fisica e metafisica come quella di forza, ossia di un principio esplicativo, chiamato a esprimere l’azione di un corpo sull’altro, viene poi rintracciata nell’idea di mana, di quella potenza impersonale veicolo per eccellenza del sacro all’opera nella religione totemica. Come si vede, sul tappeto sono temi che travalicano ampiamente l’ambito sociologico.

A Durkheim la società appare come un’entità fragile e precaria. E lo è a maggior ragione nel momento in cui una sua creazione, l’individuo, sembra smarcarsi dalle appartenenze collettive e dalle forme di solidarietà tradizionali. Si tratta di quella crisi della modernità, per usare una formula di comodo, che costituiscel’interrogazione di fondo dell’itinerario di ricerca durkheimiano. Da qui il suo orientamento socialista, radicato nell’amicizia con Jean Jaurès, che tuttavia si sottrae all’impegno politico diretto, con la significativa eccezione delle prese di posizione in occasione del caso Dreyfus, per configurarsi nei termini universalistici della missione scientifica e pedagogica.

Integrazione socialista

Su come Durkheim concepiva l’articolazione fra tale vocazione e l’agire politico ci ragguaglia un altro volume recentemente riproposto, da il Saggiatore, che, sotto il titolo di La scienza sociale e l’azione (pp. 362, euro 15), raccoglie un’ampia silloge di scritti minori riguardanti lo statuto delle scienze sociali ma anche la relazione fra esse e la dimensione politica. A emergere è una prospettiva, del resto non insolita al tempo, in cui il campo semantico della parola socialismo tende a sovrapporsi con quello di termini come sociologia, società e socializzazione. In tal senso, la sociologia nel prendere partito per il suo oggetto, il sociale, contro la sua riduzione a sommatoria di contratti fra soggetti individuali, manifesterebbe un’intrinseca politicità, di tipo socialista, ma di un socialismo che promuove l’interesse non di parte – la lotta di classe – ma generale in una dimensione gradualista e integrazionista. La divisione del lavoro sociale e Il suicidio, in proposito,avevano vagheggiato una possibile proposta di tipo corporativo, della cui traduzione in termini politici, però, Durkheim non si fece di fatto attivo propagandista. Nelle Forme elementari, non manca qualche riferimento attualizzante circa la funzione sacra che possono assumere riti e simboli politici, la loro capacità di produrre senso di appartenenza e di innescare il meccanismo che conduce il singolo a fuoriuscire dai propri interessi profani per accedere alla dimensione del collettivo. Ma si tratta solo di divagazioni comparativiste, volte a mostrare la riproduzione dei meccanismi analizzati presso le religioni totemiche in contesti completamente diversi. Una validazione scientifica, quindi, e non un’indicazione prescrittiva. Di quest’ultima dimensione si faranno carico i «totalitarismi» del Novecento, non mancando di suscitare lo sconcerto di uno dei maggiori eredi della tradizione durkheimiana, Marcell Mauss, il quale in una lettera del 1939, sotto lo choc delle adunate naziste, esprimeva il tragico sconcerto derivante dal fatto che lo loro teorie avessero trovato «una verifica dal male piuttosto che dal bene».