Gli uomini crescono inseguendo traiettorie lineari, una donna è chiamata a confrontarsi continuamente con tutte le possibili versioni di sé. È un lavoro che se va bene porta alla nevrosi. Ci vorrebbe un glossario, una guida galattica, sicuramente un’amica a cui resti ancora del tempo per sé, per orientarsi tra aspirazioni indotte e illusioni personalizzate. E forse non basterebbe comunque a sbarazzarsi di quella che a vent’anni dal 2000 sembra agire come una maledizione: essere una donna significa ancora imparare a calcolare continuamente il proprio valore in base ai criteri degli altri; a queste condizioni, desiderare può diventare un’impresa impossibile.

BISOGNA MUNIRSI di una fiducia smisurata nel cosmo e di una certa ironia per restare integre tra un selfie e una lezione di yoga, o magari rinunciare una volta per tutte a questo sogno di interezza. Le donne ne stanno scrivendo, a latitudini diverse, e sempre partendo da sé. E il personal essay così radicato nell’ambiente anglosassone, trova strade anche in Italia proprio attraverso scritture che hanno fatto dell’appartenenza a un sesso l’inizio di un viaggio nel mondo più che un punto di arrivo. «La donna ideale è sempre stata generica» scrive Jia Tolentino in uno dei suoi longform più riusciti, Ottimizzarsi sempre, incluso nella raccolta Trick Mirror. Le illusioni in cui crediamo e quelle che ci raccontiamo (NR Edizioni, pp.300, euro 20).
«Ha un’età indeterminata, ma un aspetto decisamente giovane. Ha i capelli lucidi e l’espressione pulita e spudorata di una persona convinta di essere fatta per essere guardata». Ci sembra di vederla questa donna, tanto ci è familiare il suo «confezionare e diffondere la propria immagine». È un’operazione che si impara a fare davanti allo specchio: sottoporsi continuamente all’approvazione di un pubblico invisibile – fa notare l’autrice del New Yorker, poco più che trentenne, che ha tutte le intenzioni di smascherare una per una le «trappole» che hanno contribuito a costruire una generazione di ragazze.

TOLENTINO RACCONTA cose che già sappiamo, ma le dice meglio. Con un periodare biforcuto passa al setaccio gli inganni a cui ci siamo sottoposte negli ultimi trent’anni – dai blog personali alle droghe sintetiche, dagli account Instagram ai party matrimoniali. Una chirurgia plastica cerebrale, tanto invasiva da aver reso impercettibile il confine tra le pretese degli altri e la misura di sé. Qualcosa a cui, che ci piaccia o meno, partecipiamo tutti, ma che ha trovato nelle donne una predisposizione storica. «È molto facile – scrive – in condizioni di obbligo artificiale ritrovarti a organizzare la tua vita attorno a pratiche che ritieni ridicole e forse indifendibili. Le donne conoscono questo processo intimamente da molto tempo».
Le donne sanno. E non è solo una questione estetica, l’imperativo diventa presto morale. Che si tratti di un corso di «barre» o del modo in cui nutriamo i figli, di un abbigliamento athleisure o dei nostri rapporti di coppia, la procedura è la stessa: farsi carico di una performance che si regge su punizioni autoimposte e soddisfazioni obbligate. È in questa stanza piena di specchi che Tolentino articola un balletto accidentato, che va avanti comunque e nonostante tutto, facendo lo slalom tra futuri preimpostati e tradizioni nuove di zecca, eroine pure e celebrità in rovina

IL RICALCO DI UN ITINERARIO che altrimenti finirebbe sottotraccia: come siamo passate dal dramma di Sylvia Plath a quello di Britney Spears? Cosa resta delle bambine coraggiose in cui ci siamo impersonate, davanti al mito della donna difficile che diventa famosa proprio nel momento in cui comincia a andarle tutto storto?
È la mistica della ribelle che cola a picco, così funzionale a un certo maschilismo di mercato, che volenti o nolenti abbiamo fatto nostra? – e, quanto vende il «guarda cosa capita a chi non riga dritta». Se una ragazza dovesse prefigurarsi una vita attraverso i romanzi «il passaggio sarebbe questo – scrive Tolentino – innocenza nell’infanzia, tristezza nell’adolescenza, amarezza nell’età adulta. A quel punto se non si fosse già uccisa, semplicemente sparirebbe».
Cresciuta in Texas, mentre le ragazze «si trasmettevano l’anoressia e la bulimia le une con le altre come se fossero dei virus», oggi alle prese con l’America di Trump e del MeToo, Tolentino mette a nudo un intreccio perverso tra letteratura e gossip, vite ordinarie e fantastiche, con l’intento di mostrare fino a che punto l’apice del successo per una donna può arrivare a coincidere con il culto dell’autodistruzione – vedi anche: «mostri fuori di testa» che «dopo la morte sono diventate dei geni». E non c’è bisogno di avere milioni di follower per capire che non basta scrollare via il pensiero indossando i panni della «blogger lifestyle» rigorosamente bianca che dispensa pillole di autostima, o della «supermamma» che non potrebbe mai essere difficile, semplicemente perché è stata progettata per credere di non esaurirsi mai. Una volta varcata la soglia più intima della post-verità, pretendere di essere autentiche può funzionare come il codice sorgente di tutti gli autoinganni.
Ecco come, almeno in Italia, la maternità è diventata il buco nero dei nostri discorsi, uno spettro che assorbe tutto e si nutre di sorveglianze reciproche. Nel suo Madri e no. Ragioni e percorsi di non maternità (Marsilio, pp.160, euro 17), con la fluidità cristallina del saggio e l’irrequietezza della confessione, la giornalista e traduttrice Flavia Gasperetti si spinge alle radici di invenzioni come l’istinto materno e l’orologio biologico, e ne fornisce la ricostruzione storica in un ragionamento coraggioso e sincero, ricco di rimandi e sostenuto da dati, che diventa riflessione più ampia su come abbiamo costruito il nostro immaginario intorno alle madri che siamo o che non saremo mai.

«PER UN MOMENTO mi vedo con gli occhi delle tante signore che posso aver deluso negli anni: a cosa serviva il mio essere una bella ragazza, a cosa servivano gli attributi scaltri della giovinezza, la pelle rosea e i capelli lucidi se non ad assicurarmi un figlio?».
Gasperetti si dichiara in pace con la propria scelta, ma questo non cambia niente sul fronte della pressione sociale a cui ci si può sentire esposte. È l’«era del figlio», la stessa che ha reso i bambini feticci in base al principio che «la vita di chi è genitore ha intrinsecamente più valore di quella di chi non lo è», dove l’amore per i piccoli si deforma in innamoramento. L’australiano John Marsden, ci fa sapere l’autrice, la definisce una «pandemia di genitorialità tossica». Un’altra trappola da scardinare?
Per descrivere meglio il tritacarne interiore a cui si può restare aggrappate Gasperetti cita un brevissimo racconto di Lydia Davis: «a un certo punto della sua vita lei capisce che non è tanto che voglia un figlio quanto che non vuole non averlo o non averlo avuto». Potrebbe essere il ritornello di una canzone imparata a memoria. Come sarebbe, invece, il migliore dei nostri futuri possibili? Gasperetti si avventura in una cartografia di fantasmi – tra equilibriste e donne composite, vecchie zitelle ed egoiste che cambieranno idea, stepmonster e fidanzate di papà – per approdare ai contorni di un sentimento inesplorato.

«L’AMORE dei genitori adottivi, dei tutori, dei parenti alla lontana e dei maestri che vivevano nei miei libri mi sembrava superiore perché non era innato e inevitabile, veniva appreso» scrive l’autrice, oggi impegnata con i figli di qualcun altro. L’invito è a stare nelle cose tenendo a mente che «tutto ciò che è stato inventato può essere reinventato», a interrogarci sui legami che non sono dati per certi, sulle ombre lunghe che nel corso dei secoli hanno contribuito a modellare le nostre personalità fratturate fino quasi a ingessarle.
Tolentino e Gasperetti si destreggiano tra ragazze mosaico e signore andate in pezzi, bamboline di carta e angeli del ciclostile. Hanno origini diverse, nei loro vissuti tengono insieme quattro continenti, sono cresciute in contesti sociali e politici non perfettamente sovrapponibili, ma i riferimenti culturali sono gli stessi. Quelli di un’industria globale, che condividiamo in molte. Volevamo tutte essere Jo March, abbiamo letto Simone de Beauvoir e Donna Haraway, ci siamo rimproverate di non essere state abbastanza furbe o fortunate da aver trovato amiche come Anna Shirley o Amy Winehouse. Ma essere donna resta ancora «tutto un lavoro, una prescrizione e un dubbio» scriveva Rossana Rossanda ne La ragazza del secolo scorso. Una frase breve, tuttora più che valida, che racchiude un abisso di verità. Forse è arrivato il momento di chiederci che differenza ha fatto nelle vite individuali aver capito come stavano davvero le cose. Se il meccanismo da disinnescare è più forte della consapevolezza. Forse, ci stiamo accorgendo che abbiamo bisogno di qualcosa di più, o di qualcos’altro. E sembra proprio che a questo punto della storia non sappiamo di cosa si tratti.