Mesi fa, sembrano anni, all’inizio delle primarie a cui si affacciava un palazzinaro, star di reality TV, patron di concorsi di bellezza con un debole per il “millionaire kitsch” e una propensione alle esternazioni scostumate nei confronti di stranieri, donne e minoranze, l’edizione Usa del Huffington Post  prese ad apporre una postilla ad ogni articolo che lo riguardava. Nella nota ai lettori il portale di Arianna Huffington precisava che “Donald Trump è un bugiardo seriale, xenofobo, razzista misogino…”

Ieri, poche ore dopo l’elezione dello stesso a presidente degli Stati uniti, il  sito ha rimosso la dicitura. La motivazione è stata quella di non voler “imitare la retorica incendiaria e ostruzionista che la destra ha per anni impegnato contro l’attuale presidente”. Ma nella rotta generale la modifica ha incapsulato una capitolazione delle voci progressiste nel paese che in qualche modo ha reso la in qualche modo ancor più integrale la sconfitta.

L’esordio di Trump in politica era stato predicato su una dietrologia del “birtherism” il sospetto insinuato da complottisti per confutare la cittadinanza del primo presidente nero. Trump ha dato una roca voce al razzismo, misoginia, xenofobia, virilismo viscerali di cui parlava Huffington, e il paese lo ha premiato con la Casa Bianca.

Sul percorso ogni esternazione ha sollevato un regolare coro di biasimo, ma lui ha incamerato lo sdegno di istituzioni, figure politiche e intellettuali come conferma di superbia elitista e per ingrossare il fiume in piena della demagogia che ieri notte – in quello che Michael Moore ha definito “Apocalypse 11/9” – è straripato, sommergendo sondaggisti, giornalisti e e analisti.

Rimangono ora da dipanare i flussi demografici e analizzare il groviglio di scontento che serpeggia nelle hinterland ma sono sostanzialmente confermate le spaccature abissali – oggi forse insanabili – fra America urbana e cosmopolita (“le città diventeranno centri di resistenza strategica” ha detto Katrina vanden Heuvel) e quella rurale, quella con titoli di studio e senza e, innegabilmente, fra quella bianca e di colore.

Quest’ultimo dato accomuna l’America di Trump alla marea nazional-populista che dilaga in Asia e in Europa. Ma acquisita l’incapacità di media e governanti di percepirne la portata, si pone oggi urgentemente in America la questione di come farvi fronte,  dato che come ha scritto David Remnick sul New Yorker, “Il fascismo non può, non deve, essere il nostro futuro, eppure è certamente così che potrebbe cominciare.”

[do action=”quote” autore=”David Remnick, New Yorker”]”Il fascismo non può, non deve, essere il nostro futuro, eppure è certamente così che potrebbe cominciare”[/do]

Ovvero con quelle pulsioni retrograde reindirizzate dall’antipolitica trumpista contro i comodi bersagli di sempre: gli altri, i diversi, gli stranieri. Non a caso giungono i plausi dell’internazionale populista: le congratulazioni “all’America libera” di Marine Le Pen e l’elogio di Beppe Grillo (ma Grillo lo ha fatto anche nel 2008 e nel 2012 per Obama, ndr) che inneggia “all’apocalisse dell’informazione, della televisione, dei grandi giornali, (che) questo ha fatto un vaffanculo generale, un V Day pazzesco”.

Grillo celebra l’affinità trumpista deridendo “giornalisti e intellettuali ancoráti ad un modo che non c’è più” e autocelebrando i nuovi barbari. L’amministrazione Trump che catapulta i barbari nella stanza dei bottoni sarà un test delle istituzioni democratiche ma anche del populismo al governo, della trasformazione di una mezza dozzina di slogan in programma politico.

[do action=”quote” autore=”Robert Reich”]“Era destinato fin dall’inizio ad essere un confronto fra populismo autoritario e populismo progressista”[/do]

“Era destinato fin dall’inizio ad essere un confronto fra populismo autoritario e populismo progressista” ha scritto con rammarico “sandersiano” Robert Reich, usando l’accezione anglosassone di populismo come movimento popolare. “Per ora è prevalso quello autoritario ma se sapremo essere uniti trionferà  quello progressista”.

Quando ha parlato dal podio del Rose Garden, Obama è parso tornare ad incarnare il ruolo di “consolatore capo” che ha assunto così tante volte nel suo mandato in seguito a calamità naturali e mass shooting. Il presidente ha esortato il popolo liberal a “non diventare cinici. A volte capita di perdere un dibattito a volte un’elezione. Il percorso di questo paese è sovente a zig-zag. A volte progrediamo a volte andiamo indietro. Ma sappiamo sempre rialzarci, leccarci le ferite e andare avanti con fede nella sostanziale buona fede dei nostri concittadini”.

Parole di circostanza di un presidente uscente la cui “legacy” è ora nelle mani di un successore col potere illimitato che gli conferisce un congresso repubblicano. Nel suo mirino ci sarà la sanità pubblica istituita da Obama che certamente verrà abrogata.

Idem per l’apertura a Cuba e il trattato di non proliferazione con l’Iran e assai probabilmente il trattato climatico di Parigi (vedi gli altri articoli nell’edizione di oggi, ndr).

Con l’appoggio di camera e senato Trump nominerà giudici conservatori alla corte suprema che a sua volta avrà voce determinante su diritti civili, aborto, porto d’armi, norme ambientali – uno strascico reazionario destinato a durare ben oltre il suo mandato.

L’impossibile e demagogica promessa del muro al confine con il Messico verrà probabilmente emendata e modificata, ma rimarrà l’intenzione di assecondare le pulsioni che l’hanno prodotta:  i 12 milioni di ispanici “clandestini” il cui lavoro oggi sorregge l’economia agricola  e di servizio – come milioni di musulmani – da oggi vivono nell’incertezza e nel  terrore di retate e deportazioni.

Una esatta metà degli Americani insomma oggi ha buone ragioni per essere ben più pessimista riguardo la buona fede invocate da Obama.

La parte del paese che dopotutto ha espresso una maggioranza – seppur risicata – del voto popolare contro Trump crede semmai che ieri si sia incrinato qualcosa di fondamentale nel contratto sociale che la dialettica trionfante in queste elezioni rappresenti una mutazione genetica della politica in un’era post fattuale, post giornalistica – post politica.

Mentre a Wall Street guarda caso si impennano le azioni di società farmaceutiche e delle prigioni private, la vittoria di Trump rappresenta il trionfo del minimo comune denominatore di una politica semplicista ed emozionale e fondamentalmente strumentale il cui obbiettivo è distogliere l’attenzione dall’effettiva crisi del neoliberismo transazionale.

Il trionfo di Trump infine ha prodotto una profonda dissonanza cognitiva, spiazzando parti importanti, fondamentali, dell’America, della cultura, della musica, del cinema, apparentemente “ancoráti ad un mondo che non esiste più”. O che ha urgente bisogno di essere reinventato.