Athena Orchard, una tredicenne inglese, è morta di tumore qualche mese fa. Recentemente i genitori hanno scoperto una sua lettera d’addio scritta sul retro del suo specchio. La lettera resa pubblica ha avuto una grande risonanza. All’inizio della lettera Athena invita a vivere ogni giorno come se fosse speciale perché «domattina potrebbe capitarvi una malattia mortale, come è accaduto a me». Il suo testo a «memoria futura» è ingenuo ma la sua intensità lo rende commovente e alcune annotazioni sulla felicità sono sorprendentemente acute. La felicità, scrive Athena echeggiando inconsapevolmente Kavafis, «forse non è il lieto fine, forse è la storia». E in un altro punto ribadisce: «la felicità è una direzione, non una destinazione». Non è facile scrivere queste parole quando il triste fine è alle porte, interrompendo anzitempo la storia, e la direzione porta dritto alla morte come sua unica destinazione. Tuttavia si può comprendere meglio la fiducia nella vita di questa fanciulla destinata a non fiorire se si assume che una storia è nella sua essenza sempre incompiuta, senza fine, aperta alla buona e alla cattiva sorte. E la direzione non ha mai destinazione, la elude. Per Athena la felicità è l’intenso vivere, non esattamente quello dell’«attimo fuggente» ma l’eternità del semplice gesto spontaneo che crea il nostro legame con il mondo senza altra aspirazione che il fluire della nostra esperienza. Questo gesto che ignora la morte e non ha una meta definita, è la materia prima da cui prende forma il senso della vita.

Essere psichicamente vivi quando moriamo è la migliore sorte che ci può capitare ma ciò che la ostacola non è l’incombente morte fisica bensì la morte che ci abita interiormente fin dal momento che il nostro legame con lo specchio (reale o metaforico) ci insedia nelle condizioni oggettive della nostra esistenza. L’esistenza spontanea, libera di un ordine predefinito, del bambino che costituisce il nucleo originario della nostra soggettività, si struttura riflettendosi in un ordine sociale (simbolico) che le preesiste, in maniera meno ortopedica di quanto supponeva Lacan (che è stato il primo a intuire questo dramma iniziale della vita) ma comunque traumatica, (auto)alienante. La strutturazione se ci predispone alla socialità, limita, al tempo stesso, la nostra libertà di vivere un disordine creativo e di goderne. La nostra nascita sociale fa «morire» una parte della nostra spontaneità, una parte della capacità di godimento puro, privo di altre finalità, che determina l’intima sensazione di essere vivi. Questa perdita (la radice più profonda della dimensione melanconica della vita) è riparata con l’investimento narcisistico della nostra immagine riflessa: il Narciso che alberga in noi si aggrappa al suo specchio per non sprofondare nella fascinazione della propria immagine che lo cattura dall’esterno. In «Attraverso lo specchio» di Lewis Carroll, Alice scopre in un diario un poemetto (Jabberwocky) fatto di parole senza senso e leggibile solo se riflesso nello specchio. Ogni notte è necessario attraversare lo specchio con Alice per entrare nel mondo del sogno, riscoprire un nostro personale disordine e ritrovare l’incomprensibile (nel mondo ordinato in senso logico) poema del nostro idioma soggettivo libero da una sua lettura allo specchio che lo raddrizza pregiudicando il suo dispiegamento creativo. In vicinanza della morte lo specchio può riattivare l’interruzione del flusso spontaneo della vita che si oppone allo sgomento. Scrivendo sul retro del suo specchio Athena lo ha attraversato metaforicamente. Ha guardato la vita dal lato del sogno.