La rete non ha fatto altro che espandere e rendere più visibile lo stigma della vergogna. In particolare nei confronti di chi è marginalizzato da una certa oppressione ed esclusione sociale. La rappresentazione della violenza acquista proprio grazie alla rete un grado di moltiplicazione fedele e imponente. Il problema non è il web ma come ci si arriva, con quali strumenti critici, affettivi e di intelligenza. Il suo utilizzo è proporzionale alle cose di cui si è dotati, spesso una miseria a cui ci si allena quotidianamente.

Il massacro quotidiano, le sassate verso chi non può difendersi e che appena si volta (per capire da chi stanno arrivando) si accorge che il colpo arriva da altri siti insospettabili, è reso in questi giorni più chiaro da due episodi rimbalzati in tempi diversi sulle pagine dei giornali. Il primo attiene al suicidio di una donna trentunenne che in questi mesi è stata stalkerata e dileggiata fino allo spasmo dopo la diffusione di un video che ne riprendeva un rapporto intimo con un uomo.

Il secondo episodio, altrettanto drammatico, coinvolge invece una minorenne priva di sensi che viene stuprata in una discoteca del riminese mentre delle sue coetanee riprendono il fatto e lo diffondono su whatsapp. Sono due vicende molto diverse che fanno però parte di una comune visione del mondo e delle relazioni umane disintegrate.

Il suicidio in sé è incommentabile come volontà di procurarsi la morte, possiamo soffermarci sulle cause che hanno condotto alla pubblica lapidazione della giovane donna. Cause che vanno a incistarsi nella scelta libera di una sessualità vissuta come si crede. Nelle ragazze che diffondono il video della discoteca, il meccanismo è quello intollerabile dell’essere spettatrici di una violenza sessuale senza intervenire in difesa di chi la sta subendo.

Il termine virale risponde in queste storie non solo alla condivisione compulsiva in rete ma anche, e forse soprattutto, a una deliberata pretesa di non farsi carico di ciò che accade alle persone in carne e ossa, né del dolore che si va a provocare. Al contrario si aumenta a dismisura la punizione e l’afflizione altrui. E sono stati mesi di sconfinato patimento quelli che ha vissuto Tiziana Cantone, questo il suo nome che aveva chiesto di poter modificare per cominciare una nuova vita.

Il cyber-stalkeraggio nell’ultimo anno le aveva fatto perdere lavoro, amicizie e l’aveva sottoposta al parere del web (oltre che a quello di una causa giudiziaria) più impietoso del solito proprio perché al centro della videoregistrazione vi era un rapporto orale e consenziente con un uomo. Perché, a dirsi le cose come stanno, una donna che agisce la propria sessualità liberamente è pur sempre motivo di turbamento, getta cioè un senso di scompiglio nella singolare e collettiva percezione.

Si può anche fare finta non ci riguardi ma almeno dovrebbe interrogarci per la ferocia in cui si è mostrata in questa vicenda. E’ un virus anche questo, insidioso e difficile da estirpare se non dopo un lungo e faticoso lavoro su se stessi. Così come complesso e indigeribile è ciò che spinge delle ragazzine a lasciare che uno stupratore si abbatta su una propria conoscente oltre che una propria simile.

La spazzatura che investe chi entra in contatto con vicende simili, è il turbine di una violenza che sembra non placarsi. Arriva da un deserto affettivo e di relazioni da cui continuamente ci si dissocia ma che racconta una incapacità diffusa di guardare l’altro nella sua libera esistenza e manifestazione di sé. Qualcosa che è quasi banale chiamare una semplice declinazione della società spettacolare, nonostante ciò che Guy Debord definisce come “guerra dell’oppio permanente” andrebbe disossato e messo a tema meglio sotto la lente.

Si parla spesso di “diritto all’oblio” (espressione giuridica che applicata alla rete è impossibile per la proliferazione spesso anarcoide e incontrollabile dei contenuti) e non si può stabilire se – intervenendo prima – il suicidio di Tiziana si sarebbe potuto evitare in qualche modo.

La sensazione è tuttavia che esista qualcosa di precedente al piano del diritto e che cominci dove prende avvio lo stesso linciaggio. In un punto cioè di rottura su cui si dovrebbe lavorare, dove a diventare irrimediabile è il superamento di una soglia che trasfigura ciò che ci sta attorno. Perché infatti il punto non è né l’onore né la reputazione da salvaguardare, ma la vulnerabilità altrui fatta a pezzi. E una distopia che è ora ed è qui e che ci ha già travolti.