È possibile scrivere sulla faccia della luna? Usare il nostro satellite notturno per comunicare a distanza? Si tramanda che nell’antichità il sapiente Pitagora avesse concepito uno specchio in grado di farlo. L’erudito gesuita Athanasius Kircher, assemblatore di una delle più monumentali Wunderkammer del Seicento, espone questa suggestiva possibilità nel suo Nuova Criptologia, ampliando la tesi contenuta nel Magiae naturalis di G.B. Della Porta (1589), legata al leggendario specchio pitagorico: «Ho detto ed osservato che noi possiamo utilizzare questo artificio [uno specchio a tronco di cono] per cose grandi e meravigliose, e principalmente per scrivere delle lettere sul disco lunare, perché qualunque cosa si sia tracciata su questo specchio, come ho detto, esso la invia a distanza illimitata, lontana quanto la luna, essedo particolarmente aiutato dalla sua luce».

Rafael Mirami, nella sua Compendiosa introduttione alla prima parte della specularia (1582), aveva già sostenuto che «gli specchi di Pitagora erano talmente lucidi, e fatti con sottile artificio, che egli diede occasione di credere che per vie riflesse facesse vedere nel corpo luminoso della luna immagini di lettere». Affermato questo, l’autore si guarda bene dallo svelare il segreto della concreta realizzazione del prodigio, tanto che Kircher, basatosi su questi studi per provarne l’esperienza, ammette una simile possibilità ma solo a condizione di un intervento diabolico.

 

Lo Specchio di Pitagora

Ma da dove origina questa storia, chi per primo descrive lo Specchio di Pitagora e la sua capacità di scrittura sulla luna? Jurgis Baltrušaits, nel suo erudito Lo specchio (1981) pone la genesi del prodigio all’interno delle Nuvole di Aristofane, in cui ad un certo punto Strepsiade replica a Socrate: «Se io assoldassi una maga tessalica e facessi scendere di notte la luna, e poi la rinchiudessi in un astuccio tondo come uno specchio?». Alle maghe tessaliche era attribuito sia da Platone sia da Plinio questo potere di far scendere la luna dal cielo, che poi il protagonista custodisce in uno scrigno «tondo come uno specchio», tondo come lo specchio della luna appunto; lo affermava anche Virgilio che, nelle Bucoliche, ci dice come ciò avvenisse: «Attraverso il potere di magici versi».

Certo in apparenza nulla a che fare con la possibilità del famoso Specchio di Pitagora di scriverci sopra e proiettare le scritte sulla luna, ma si dà il caso che uno scoliasta, probabilmente Didimo alessandrino, citato nell’Aristophanis comoediae undecim cum scholiis antiquis (1607), tragga lo spunto dalla magica evenienza per riferire questa storia: «Vi è un gioco, inventato da Pitagora, che si fa con uno specchio. In tempo di luna piena, qualcuno scrive su uno specchio tutto ciò che vuole con del sangue e, avendo avvertito l’altro, si mette dietro e volge verso la luna le lettere scritte sullo specchio: allora l’altro fissando attentamente lo sguardo nel cerchio della luna, vi legge tutto ciò che è scritto sullo specchio, come fosse scritto sulla luna».

Qui, dunque, nasce l’archetipo dello Specchio di Pitagora, ripreso poi nella Suida del X secolo (greco: Σοῦδα o Σουίδα) lessico ed enciclopedia storica scritta in greco bizantino riguardante l’antico mondo mediterraneo. Il nome deriverebbe da Suidas, ovvero l’autore stesso dell’enciclopedia, che peraltro ricorre nella prefazione. Nella breve descrizione dello scoliasta sono riportati tutti gli elementi dell’archetipo favoloso: lo specchio artefatto, la luna descritta anch’essa come specchio riflettente, la componente magico stregonesca femminile, Pitagora e l’immancabile sangue che tanta parte avrà nei secoli bui dell’Inquisizione per trasformare il tutto in rituale diabolico.

Ma lo straordinario strumento non era l’unico del suo genere nell’antichità: Luciano di Samosata nel suo La storia vera (in greco Aληθῆ διηγήματα, propriamente Storie vere), narra un viaggio sulla luna, descritta come un’isola sospesa per aria, tonda e luminosa, dove trova un oggetto simile: «Vidi un’ancor più grande meraviglia nel palazzo del Re [il Re Endimione]. Era un grande specchio sospeso sopra un pozzo non molto profondo. Scendendo nel pozzo si udiva tutto ciò che era detto sulla terra e guardando nello specchio vi si vedevano tutte le città e tutti i popoli come se si fosse in mezzo a loro».

Le analogie tra i due strumenti sono evidentemente su basi catrottiche, completandosi lo strumento di Luciano con una sorta di «orecchio di Dionisio», come quello che il tiranno di Siracusa aveva realizzato allo stesso scopo di intercettazione auditiva. Nihil novi sub sole verrebbe da dire, alla luce, è il caso, delle odierne rivelazioni di E. Snowden.

Se analizziamo singolarmente queste componenti troviamo il loro nesso causale nella più remota antichità. In primis la luna: «La luna non è uno specchio e non ha neppure la superficie liscia…». Se Gaspar Schott nel suo Magia universalis natura et artis (1657) si sente in dovere di procedere ad una accurata dimostrazione di questo assunto, è perché sin dai tempi di Plinio, e molto prima, l’umanità indagava il potere riflettente della luna, dato che il sole vi appariva in toto, pur ridotto in dimensioni, nella sua fase piena. Che il corpo lunare, a dispetto delle sue irregolarità, sia uno specchio convesso, è evidente; e dunque la sua natura di gigantesca macchina catrottica non è negata da nessuno; come per le nuvole, anch’esse irregolari ma quando «dense e lisce», come le descrive Seneca, capaci, in certe circostanze, di riflettere e moltiplicare l’immagine del sole.

L’inquietante apparizione del sole multiplo è descritta anche nell’Eneide quando Didone vede risplendere nel cielo due soli e con essi due città di Tebe: «Et solem geminum et duplices se ostendere Thebas» (IV-469). Girolamo Cardano (1550) descrive il fenomeno dei soli multipli osservato di persona a Venezia, riprendendo le osservazioni di Seneca: «Quando una nube spessa, pronta a gettar pioggia, si trova accanto al sole, e questo imprime la sua immagine in quella, come vediamo che fa un acciaio ben brunito e levigato…».

Come la luna, infine, gli specchi di nubi non riflettono solo gli astri ma qualsiasi oggetto che gli si pari dinanzi, così da creare esseri fantastici, presagi di disgrazia o di gloria. Cornelio Agrippa (1529) descrive il fenomeno con queste parole: «E vediamo, quando soffia il vento del sud, come l’aria si condensa in piccole nubi nelle quali si riflettono remote immagini di castelli, montagne, cavalli, uomini ed altre cose che via via che esse si allontanano svaniscono…».

L’autore nomina anche il famoso specchio pitagorico, affermando che se ne poteva trarre vantaggio per le comunicazioni: al tempo in cui Francesco I faceva la guerra a Carlo V per il Ducato di Milano, lo specchio sarebbe stato usato per trasmettere informazioni tra questa città e Parigi. In tempi contemporanei il poeta calabrese Pino Chiarelli raccontava che da ragazzo, accompagnando il padre alla marina, guardava attraverso un fondo di bottiglia le carovane dei deserti riflesse sulla luna.

 

Da sapiente a stregone

Citata a più riprese, spesso senza menzionare le fonti, la leggenda dello Specchio di Pitagora viene arricchita nei secoli da inediti particolari. La versione del Cinquecento, che servirà poi da testo base per successive interpolazioni, la si deve a Natale Conti, un mitografo milanese che nel suo Della luna (1551) riprende tutti gli elementi della storia, a partire dalle streghe della Tessaglia per arrivare poi al famoso oggetto: «Gli Antichi hanno scritto che questa opinione deriva dal fatto che si facevano certi specchi rotondi, quasi a rappresentare la luna strappata dal cielo. E che ciò fu una invenzione di Pitagora». L’oggetto viene posto così alla radice del potere delle donne tessaliche, creando un cortocircuito immaginale tra la luna tirata giù e lo specchio che ne riproduceva la forma e le caratteristiche catrottiche.

Il Conti riprende anche la versione di Agrippa sull’uso militare dello Specchio, avendo sentito forse di persona le storie che si raccontavano su di esso durante l’assedio che, da bambino, aveva vissuto. Ma all’epoca, come poi suggellerà l’autorevole Kircher, questa sorta di trasmissione via satellite ante litteram, puzzava oramai di zolfo diabolico.

E così si trapassa, su una sorta di piano inclinato, dall’antichità piena di splendenti divinità olimpiche e di sapienti, verso un orizzonte fosco popolato da maghi e fattucchiere, intenti a seminare il verbo degli dei falsi e bugiardi, ispirati naturalmente dal Maligno. In questo nuovo scenario, dominato dall’Inquisizione, lo Specchio di Pitagora diventa uno strumento diabolico, così come il suo scopritore un negromante della peggior specie.

In particolare vi era un aspetto, riportato dall’antica fonte dello scoliasta, che suggeriva l’uso malvagio dell’oggetto: il sangue usato per scrivere le lettere. Agli studiosi di ottica antica ed ai mitologi succedevano quindi i demonologi; tra questi il primo ad occuparsi della faccenda, da un inedito punto di vista, fu Le Loyer che, alla fine del Cinquecento, ci dà una nuova traduzione in versi del passo di Aristofane nella quale compare la descrizione del famoso astuccio a forma di specchio in cui rinchiudere la luna e che, secondo lui, sarebbe ventru luisant cioè sferico-convesso. Per trasposizione analogica dunque, lo Specchio di Pitagora avrebbe avuto la stessa forma.

Ma l’attenzione di Le Loyer si sofferma esplicitamente sul «chi è» del sangue col quale si tracciavano le lettere da trasmettere precisandone la natura, mentre si spinge sino a darci la definizione del manufatto: «Al riguardo lo scoliasta riferisce che Pitagora scriveva col sangue umano sullo specchio panciuto che i Greci chiamano catoptron. Lascio ora pensare ai Pomponazziani se questo specchio e queste lettere scritte con il sangue umano non siano simili al loro sangue di caprone ed ai loro specchi opposti al chiarore del sole o della luna e frutto entrambi dell’arte del diavolo e non di altro». Ecco allora, oltre ogni ragionevole dubbio, fissato il segno satanico.

Come accade spesso nelle questioni ecclesiali e dottrinali, bersaglio dell’inquisitore erano dunque anche i tardivi, ma tenaci, seguaci di Pietro Pomponazzi che aveva sostenuto, nel suo Tractatus de immortalitate animae del 1516, come l’immortalità dell’anima non potesse essere dimostrata razionalmente. Lo scandalo suscitato dal testo fu enorme: attaccato da più parti, il libro venne pubblicamente bruciato a Venezia. Denunciato come eretico dall’agostiniano Ambrogio Fiandino, solo la difesa del cardinale Pietro Bembo gli permise di evitare il rogo, ma nel 1518 è comunque condannato da Leone X a ritrattare. Pomponazzi non ritratta ma si difende con diverse apologie che comunque non lo scagionano dalla terribile accusa.

Ecco dunque posti in risalto i nuovi elementi satanici, primo tra tutti il sangue: non un generico sangue animale o, come vedremo, anche di origine vegetale, ma immancabilmente umano. E poi il catoptron che definiva non una semplice ottica di superficie con caratteristiche riflettenti, ma un apposito apparato per la catoptromanzia, cioè la divinazione attraverso gli specchi. E dunque le conclusioni sono nette e suonano come una condanna senza appello: «Pitagora fu il più grande mago del suo tempo e per di più stretto alleato del Diavolo, come testimoniano i falsi miracoli e le imposture che si leggono su di lui».

Raffigurato nel medioevo, conformemente ad Isidoro di Siviglia e Cassiodoro, tra i protettori delle Arti Liberali come inventore della musica, adesso è relegato nel regno del Maligno.

La presenza di uno specchio convesso, cioè di qualsiasi superficie semisferica in grado di riflettere, diventava così un indizio di commercio col demonio; se poi si ritrovavano tracce di sangue umano la prova demonologica era irrefutabile. Restava però ancora da dirimere la controversia relativa alla natura di questo sangue: come dimostrare che fosse umano? All’epoca la scienza non era così avanzata in questo campo e le prove che oggi ci ammanniscono i vari serial televisivi di indagine poliziesca, con le loro sadiche raffinatezze, erano di là da venire.

Pur nell’oscura atmosfera inquisitoria dunque, alcune menti illuminate cercavano di difendere le povere donne dall’accusa di stregoneria. In certi casi, infatti, l’Inquisizione si accaniva su determinati gruppi per motivi chiaramente politici e allora le accuse erano bassamente strumentali e riguardavano, ad esempio, la popolazione femminile nel suo complesso: è il caso dell’inquisitore gesuita Torreblanca che, nella prima decina del Seicento, imperversava nella regione basca bruciando le donne locali come forse un tempo avrebbe fatto con quelle della Tessaglia.

E così, a discolpa delle varie evidenze di sangue umano trovato sulle povere stoviglie di queste contadine – nel frattempo, infatti, per comodità inquisitoria lo specchio convesso si era trasformato in semplice bacile concavo – qualcuno avanzò l’ipotesi che in realtà il sangue utilizzato da Pitagora non fosse tale, ma semplicemente un liquido simile ottenuto dalle fave pestate, materiale appunto molto comune in campagna, e che in questo modo non si fosse in presenza del demonio ma di un semplice peccato di gola.

Certo la relazione tra specchio e Maligno, così come tra questo oggetto e la divinità o le divinità, è strettissima e vastissima. Si parte dallo specchio di Hathor nell’antico Egitto, per transitare poi allo scudo di Teseo usato come specchio per tagliare la testa alla gorgone Medusa, o a quello attraverso cui Dioniso crea il mondo, sino ad arrivare, con una lunghissima ed ininterrotta sequenza mitologico-simbolica, sino al suo valore per la spiritualità monoteista giudaico-cristiana: basta pensare alla famosa frase di S. Paolo in Corinzi I, 13, 12: «Videmus nunc per speculum in aenigmate», riferita alla visione divina, mentre il volto stesso di Mosè risplendeva come uno specchio dopo la sua discesa dal monte Sinai.

Il Maligno, da parte sua, ha una comprovata consuetudine con gli specchi, proprio attraverso il loro uso a scopi divinatori o evocatori della sua multiforme presenza. Nell’iconografia medioevale troviamo molte illustrazioni dello specchio dietro il quale si nascondono diavoli tentatori o branditi da demoni dinanzi ai peccatori oramai travolti dalle fiamme eterne, e diverse raffigurazioni del detto: Le mirior c’est le vray cul du Diable.

 

Il tramonto dello Specchio

Ma, come per molte altre arti demoniache, non fu l’Inquisizione a determinare il tramonto dello Specchio di Pitagora, bensì la nuova scienza che, da Galileo in avanti, stava affermandosi col suo metodo sperimentale. L’evidenza scientifica della seconda metà del Seicento, infatti, appunta le sue critiche su alcune questioni ottiche che a quel tempo erano già state studiate accuratamente: prima fra tutte la divergenza dei raggi proiettati a così grande distanza, e poi l’indebolimento della luminosità dovuta allo stesso fattore. Anche Tommaso Campanella, che era stato in prigione come eretico per ventisette anni, appoggiava queste tesi in quanto dottrinalmente contrario alla stregoneria.

Pitagora ed il suo Specchio sono oramai preda della poderosa polemica tra fede e scienza che si è aperta verso il Secolo dei Lumi. E allora, le conoscenze che superano l’intelletto umano sono o no sospette di essere intrinsecamente diaboliche, o si tratta solo di secolarizzarle a teoria scientifica? «Le scienze matematiche sono la causa della rovina della nostra Repubblica cristiana!», afferma Massè sul finire del Cinquecento. Il segno del Maligno viene imposto ancora ad opere posteriori a Cartesio; la Chiesa rifiuta di scagionare Galileo sino al secolo scorso.

Ma, se nel corso del XVII secolo l’elemento demoniaco scompare progressivamente ad opera della scienza, l’antica leggenda dell’assedio di Milano e della trasmissione via satellite lunare verso Parigi rimane imbalsamata all’interno di un… lunario che narrava una storia per ogni giorno dell’anno. E così nell’edizione del 1680, il giorno 22 di giugno, si legge una ricetta pratica che titola: «Maniera per conoscere le cose assenti senza magia: bisogna scriverle a grandi lettere su uno specchio e volgerlo verso la luna, la quale le farà conoscere in un altro specchio dove la si guarda».

E così torna alla mente la frase attribuita ad Archimede: «Fece una colomba Pitagora che volava come una vera. Sinché il mistero non si capisce è magia, dopo resta la volgare scienza».