«Il popolo americano che manda a farsi fottere la leadership, di qualsiasi tipo – politica, finanziaria, dell’industria dell’energia, dei farmaceutici… Sapete perché i repubblicani non citano mai Dwight Eisenhower, uno dei grandi presidenti del loro partito? Perché ci aveva messi in guardia: fate attenzione al complesso militare/industriale e del Congresso. È la trappola in cui siamo finiti». Così, davanti a circa millecinquecento spettatori che applaudivano calorosamente, nell’auditorium dell’Eccles Theatre, Norman Lear ha risposto a chi gli chiedeva cosa pensava dell’odierna corsa alla Casa bianca.

 

 

 
A novantadue anni, dritto come un fuso, il solito cappellino di cotone bianco e l’immancabile pullover scuro con camicia chiara e jeans, la grande leggenda vivente della televisione americana si è materializzata a Park City per l’inaugurazione del Sundance 2016, apertosi con un documentario dedicato proprio a lui, Norman Lear: Just Another Version of You.
Solo qualche ora prima, nella tradizionale conferenza stampa d’inizio festival, Robert Redford aveva risposto (a una domanda sulla discriminazione razziale negli Oscar) dicendo: «Non siamo un gruppo di advocacy, non patrociniamo un punto di vista, non diciamo a Hollywood quello che deve fare – la diversità (etnica, di genere e politica, n.d.r.) che mostriamo nei nostri programmi riflette il valore della (nostra) indipendenza».

 

 

 
Ma aprire il suo festival con Norman Lear è stata una pura scelta di advocacy, e una scelta brillante, l’invito altissimo a uno sguardo aperto, a un pensiero complesso – sia rispetto a quello che sta succedendo nel resto del paese, ai margini dei titoli di testa sulla campagna presidenziale, sia rispetto a dibattiti più banali, come quello sulle nomination afroamericane agli Oscar.
Autore di alcune delle serie televisive più di successo della storia del piccolo schermo Usa (Arcibaldo, Maude, Sanford and Son, I Jefferson, Good Times…) Lear è l’uomo che ha portato nei salotti delle sitcom (e di conseguenza in quelli di milioni di spettatori) il ritratto del turmoil americano anni settanta. Vietnam, diritti civili, diritti delle donne, la critica al razzismo e al bigottismo non sfioravano nemmeno l’orbita dell’intrattenimento tv.

Directors Rachel Grady, left, and Heidi Ewing, right, pose with Norman Lear at the premiere of

 

 

 

«La nostra televisione si divide in prima di Norman e dopo Norman», afferma George Clooney (figlio di un conduttore televisivo progressista), nel documentario di Heidi Ewing e Rachel Grady (le registe newyorkesi di Jesus Camp e Detropia). «Ho imparato guardando le sitcom di Norman che è possibile introdurre un pensiero complesso nella comicità televisiva», dice Jon Stewart, uno dei tanti intervistati e fan (tra gli altri, Rob Reiner, Lena Dunham, Mel Brooks, Judd Apatow…). «Dire cose complicate facendo ridere è così difficile che non lo facciamo più» sorride Amy Pohler. Mentre la voce sepolcrale di Richard Nixon, da una delle sue interminabili registrazioni segrete, parla di Lear come di un pericolo.

 

 

 
Realizzato per la serie Pbs American Masters, Norman Lear: Just Another Version of You è un documentario piuttosto tradizionale, che un po’ banalmente affida all’apparizione intermittente di un bimbo con cappellino bianco, l’idea portante di una mente che non ha mai perso la curiosità, l’energia e l’inventiva di un fanciullo. Ma non c’è nulla di tradizionale o banale nella storia che scorre sullo schermo.

 

 

 

 

Dalla miracolosa apparizione della sua prima sitcom, Arcibaldo (All in the Family, 1971), con il protagonista Archie Bunker (Carroll O’Connor), padre di famiglia blue collar, allo stesso tempo orgoglioso e dilaniato dai suoi pregiudizi (generazionali, di razza, sesso, politica), in perpetuo scontro con le idee liberal del marito di sua figlia (interpretato da Rob Reiner), alla scandalosa, irriducibile, Maude (che vuole abortire a sessantadue anni e che è stata parzialmente ispirata alla moglie di Lear), alla prima sitcom nera mai realizzata, Good Times, e a quella ispiratagli da una visita delle Black Panthers, The Jeffersons, dopo l’ammutinamento del cast di Good Times («era calato sulle loro spalle il peso delle responsabilità nei confronti della loro gente – ricorda Lear – ma non potevamo accettare che mettessero in dubbio ogni battuta che scrivevamo»), Lear non ha mai avuto paura di inscenare, insieme ai pregi, le bruttezze dell’America. Magari ridendoci sopra – come in una bellissima scena tra lui e Mel Brooks che ironizzano sugli stereotipi jewish. «Ero all’università, quindi avrei potuto evitare la seconda guerra mondiale. Ma ho voluto andarci, in quanto ebreo. Volevo uccidere i tedeschi. E, volando sopra Berlino, non mi importava nulla se le mie bombe avrebbero colpito anche dei civili innocenti. Li volevo morti», ricorda uno dei liberal/pacifisti più famosi di Hollywood, e – ha spiegato Robert Redford prima di presentarlo- uno dei primi finanziatori del Sundance Film Festival.

 

 

 
«Dobbiamo guardare alla storia americana secondo l’idea che è tutto parte della natura umana, dell’ironia della vita. Siamo tutti capaci di qualsiasi cosa…Ognuno di noi è uno specchio dell’altro», ha risposto Lear, dopo la proiezione del film, a una signora afroamericana che gli ha chiesto se considerava il genocidio (degli indiani) e lo schiavismo come aberrazioni o parte del Dna di questo paese. Just another version of you, solo un’altra versione di te stesso, il sottotitolo del film è, ha detto lui, «il mio motto».

 

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Anche nella nuova golden age della tv americana, l’opera di Lear, e il suo pensiero, appaiono più sfacciati, profondi e costruttivi di tutto quello che ci circonda. Si tratta di un’opera di straordinario successo, ma durata una stagione relativamente breve: alla fine degli anni settanta, dopo un doloroso divorzio, Lear abbandonò quasi interamente la tv per concentrarsi quasi a tempo pieno (fondando l’organizzazione People For the American Way), nella lotta contro l’ondata reazionaria incarnata dall’elezione di Reagan e, ancor di più, dall’emergenza del bigottismo promosso da fondamentalisti religiosi come il telepredicatore Jerry Falwell. Gli echi di quel bigottismo e di quella xenofobia si sentono oggi nei comizi di Donald Trump, o di Ted Cruz.
Controllo delle armi, aborto, terrorismo, diritti omosessuali, razzismo, disparitò sociale sono alcuni dei problemi che vedremo trattati nei film in programma quest’anno al Sundance, coscienti che la lucidità, l’intelligenza e la generosità con cui li ha guardati Norman Lear è uno standard praticamente irraggiungibile. Almeno oggi.