François Ozon è un cineasta di grande talento, colto, raffinato, capace di disseminare con leggerezza citazioni e omaggi all’oggetto del suo amore, il cinema, rendendo unici e speciali i corpi dei suoi personaggi/attori. Il suo è un cinema di travestimenti sin dall’esordio, quel Sit-com (’98) in cui vi erano già molti motivi della sua «educazione sentimentale», famiglia in testa, che a ogni nuovo film rilancia con la scommessa di entrare nei vestiti di un altro. Il che non significa controllare o prendere il posto del suo personaggio, ma esprime piuttosto il desiderio di metterne in scena le ambiguità, le zone emozionali possibili, i misteri.

Era così nel precedente Giovane e bella dove il punto di vista narrativo aderiva totalmente a quello della ragazza e della sua irrequietezza, prostituta per sfida (con sé stessa) o per ricerca esistenziale come in un romanzo di formazione, poco importa perché i passaggi della sua adolescenza nel mondo «adulto» venivano narrati senza giudicare, con la suspence di chi non conosce ciò che può accadere a ogni nuovo passo. Ed è ancora più esplicito in questo Una nuova amica, in sala da domani per Officine Ubu, film irresistibile da non farsi sfuggire, il cui centro narrativo è appunto il travestimento: del «genere», uomini in abiti femminili, dei ruoli sociali, del desiderio dove le cose diventano più stratificate e molto meno evidenti.

Lui, David, a cui da vita lo scanzonato corpo d’attore di Romain Duris, alla morte dell’amata moglie Laura (Isilde Le Besco), nome premingeriano di un’assenza che è onnipresente, diventa anche Virginia. Biondissima, creatura di un iperfemminile di smalto, bocca rossa, profumo, impeccabile eleganza. In effetti la passione per gli abiti femminili David, che è rimasto solo con la figlioletta di pochi mesi Lucie, ce l’ha avuta sin da bambino quando frugava nell’armadio della mamma di cui conserva ancora la pelliccia. Allo stesso modo entra nell’armadio di Laura e indossa le sue cose, il pretesto è di aiutare la piccola Lucie a sentire meno l’assenza della mamma, e funziona visto che da quando lo fa la bimba ha ripreso a mangiare e non piange più. Questa almeno è la spiegazione che David dà all’attonita Claire (Anais Demoustier), ragazza semplice, senza eccessi di stile, anzi piuttosto sobriamente maschile amica del cuore di Laura, anche lei sposata con un marito che non sembra capire molto di quanto accade. Piombata in casa sua lo scopre e dal rifiuto iniziale piano piano inizia a essere attratta da questo gioco con un lato quasi da bambini. David e Claire diventano così complici, uniti dall’assenza dell’amata. Un fantasma che vive nei loro sogni, e che fa di Virginie, «la nuova amica», una Donna che visse due volte : per Claire contro il dolore terribile della sua perdita, per David perché finalmente può liberare questa parte di sé che pure condivideva con la moglie.

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Hitchcock, Preminger, il melò ma l’omaggio che Ozon fa attraverso Virginia è soprattutto al geniale Ed Wood, di cui il personaggio ozoniano indossa i golfini di angora e lo stile del cinema classico americano degli anni Quaranta e Cinquanta, Glen or Glenda come David/Virginie, senza che uno escluda l’altro, anzi al contrario incarnazione di una sensualità morbida e espansa. Ozon accorda tutte le variazioni dell’ambiguità che la situazione produce, divertendosi a confondere le piste, a creare malintesi, a mostrarci con ironia calorosa un pomeriggio di trasgressione nel centro commerciale, prima uscita nel mondo di David come Virginia perfetta nel suo apprendistato dello shopping che per Claire diviene quello delle fantasie e della trasgressione.
L’identità sessuale muta, il desiderio sessuale muto (le prime scene in flashback tra le due amiche rimandano alle eroine di Cukor di Ricche e famose) di un travestimento che in realtà sconvolge tutto l’esistente. Virginia è lì perché così vuole Claire che attraverso l’altra scopre anche lei, innamorata da sempre di Laure, la sua femminilità, la morbidezza sensuale di un vestito rosso e di una notte in discoteca dove i confini si mescolano tra Amanda Lear e Nicole Croisille.

Ozon non trasferisce questo travestimento nelle sue immagini, e se nei suoi personaggi tutti i confini sono labili, la geometria della sua narrazione è precisa e essenziale, quasi segnata da un gusto didattico di scrittura (all’origine c’è un racconto di Ruth Rendell). E questo rende ancora più netta la radicalità della sua proposta, di quella che lui definisce «una favola a lieto fine sull’identità», in cui tutti i ruoli e i generi sessuali si possono scambiare, dentro la relazione amorosa e amicale, e fuori nello scontro violento con la società: uomo /donna, padre/madre a cominciare da quel luogo rigidamente definito che è la famiglia, nel flusso lieve e irresistibile del desiderio .