Nel sondaggio organizzato dalla rivista cinematografica britannica «Sight&Sound» nel 2012 per stabilire quali siano i 100 migliori film della storia del cinema, Viaggio a Tokyo di Yasujiro Ozu si classificava terzo e primo nella lista stilata da soli registi. Nel 1995 «Kinema Junpo», un’altra rivista molto prestigiosa e la più antica del settore in Giappone, fondata nel lontano 1919, redigeva una classifica per scegliere i migliori 100 film prodotti nell’arcipelago durante il ventesimo secolo ed ancora una volta Viaggio a Tokyo risultava primo. Amato ed ammirato da registi e spettatori di tutto il mondo sembra che Ozu con il passare del tempo – ormai siamo a più di cinquant’anni dalla sua scomparsa – sia ancora capace di guadagnare le preferenze di addetti ai lavori e appassionati della settima arte, e anzi il tempo sembra giocare proprio a suo favore. Autore apparentemente «semplice» per lo stile ed i temi trattati, Ozu nel corso della sua carriera ha sempre lavorato con la casa di produzione Shochiku con cui, soprattutto dopo la guerra, ha realizzato dei film concentrati sempre su un unico tema, o la variazione di esso, la famiglia e la sua dissoluzione nella società giapponese contemporanea.

 
Libri che trattano di Ozu o che analizzano i suoi film ce ne sono già parecchi in circolazione, un po’ in tutte le lingue, compresa naturalmente quella italiana, quello che mancava però era un volume che traducesse e raccogliesse le parole e gli scritti del regista. Grazie al lavoro di Franco Picollo e di Hiromi Yagi che al di là della traduzione si sono occupati anche di reperire e selezionare il materiale, oltre a fornire un voluminoso ed indispensabile apparato di note, è ora disponibile in lingua italiana una raccolta degli scritti di Ozu su e attorno al cinema (Scritti sul cinema, traduzione e cura di F. Picollo e H. Yagi, Donzelli). Si tratta di un’operazione editoriale molto importante, prima di tutto perché non ne esistono traduzioni in lingue occidentali, ma soprattutto perché «parole e scritti» – il libro comprende anche alcune interviste – sono uno sfondo che fa risaltare ancora di più la sua intera opera cinematografica.

 
Per quanto sia spesso catalogato come «il più giapponese di tutti i registi» ed il suo cinema possa sembrare a prima vista, e a causa dei temi trattati un cinema «tradizionale» – qualsiasi connotazione si voglia dare a questo termine – Ozu si pone spesso e volutamente fuori da una grammatica cinematografica imposta dal tempo. «Ciò che trascina gli spettatori è la sensibilità del regista che riesce a toccare le loro facoltà percettive, non cose come le regole delle tecniche di ripresa. Anche nella scrittura non è detto che un brano grammaticalmente perfetto sia un brano superbo. Ciò che conta è la sensibilità espressiva del regista». Parole che considerate ora, con il senno di poi, quasi sembrano auspicare la «nuberu bagu», la nuova onda che investì il cinema dell’arcipelago durante gli anni sessanta e che Ozu non ebbe il modo di vivere pienamente, per quanto i registi solitamente assimilati a questo movimento considerassero Ozu uno dei rappresentanti più forti del «passato» contro cui cercavano di ribellarsi. Uno degli autori di punta di questo rinnovamento come Kiju Yoshida ritornerà però al cinema di Ozu in età avanzata scrivendo delle pagine di assoluta bellezza ed incisività nel suo libro L’anti-cinema di Ozu.

 

 

viaggio-a-tokyo_Cinema-1392

Proprio questa definizione ci sembra iluminante e trova negli scritti di Ozu più di una conferma quando l’autore di Sono nato ma… sembra fregarsene delle regole imposte dallo studio e dal sentire comune dell’epoca, il suo voler lavorare sempre con lo stesso gruppo di autori anche quando non adatti ai personaggi del film, il suo disprezzo per le dissolvenze o ancora, come detto in apertura, il suo ritornare insistente sempre sugli stessi temi, quasi che tutta la sua opera altro non sia che una variazione su un unico tema, quasi la riscrittura dello stesso film moltiplicata all’ennesima potenza. Su questa ultima tematica è lo stesso regista ad illuminarci in uno dei passaggi più belli del volume quando dichiara: «Sono un piccolo produttore di tofu. Se si chiede a un produttore di tofu di preparare un piatto di curry o una cotoletta di maiale impanata, lui non riuscirà mai a farli bene». Una dichiarazione di estetica alla tipica maniera di Ozu, semplice e molto prosaica ma incisiva e che rende l’idea in maniera perfetta.

 
Ci aiuta ad entrare nel mondo così semplice ma così complesso del giapponese l’introduzione di Dario Tomasi, uno dei maggiori esperti dell’opera di Ozu a cui ha anche dedicato importanti volumi. Di interesse è anche la parte centrale che raccoglie delle lettere che Ozu scrisse durante la sua permanenza al fronte, un periodo poco conosciuto del regista e anche se non sembra influenzare in maniera diretta la sua l’opera ne rappresenta una sorta di negativo su cui tutta la sua produzione post bellica si svilupperà.

 
In conclusione si può certamente dire che questi scritti funzionano un po’ come i suoi film, con delicatezza ma in maniera inesorabile ci trasportano al loro interno e hanno la capacità di ammaliare e la qualità di funzionare su diversi livelli. Interessanti per il cinefilo a cui dischiudono un mondo, quello del cinema giapponese, o almeno di certo cinema giapponese fra gli anni Trenta e Sessanta del secolo scorso, ma allo stesso tempo anche gravidi di rivelazioni e scoperte per l’appassionato di Giappone a cui restituiscono il quadro di un’epoca e il sentire di uno dei più importanti artisti che l’arcipelago abbia prodotto.

 

 

I temi toccati sono naturalmente i più disparati, l’amicizia con Hiroshi Shimizu, uno dei registi giapponesi colpevolmente meno considerati, la passione per i film di Lubitsch e Chaplin, le ragioni che lo hanno spinto a posizionare la macchina da presa così in basso e non ultimo l’amore per il sakè. In tutta questo profluvio di tematiche emerge qua e là e quasi come un sottofondo comune e taciuto l’ estetica dello spazio vuoto, del vacuo e del senza importanza, insomma del «ma», concetto così importante in tutta l’arte tradizionale giapponese la cui trasposizione nel cinema di Ozu avviene nei famosi pillow shots, le immagini senza particolare importanza narrativa che punteggiano i suoi lavori. E ancora gli stacchi e gli intermezzi che sono il suo «marchio di fabbrica» estetico, e un esempio del suo modo ellittico di approcciare la settima arte con cui in tutti i suoi film ha continuamente provato a «far sentire l’esistenza di ciò che chiamiamo vita senza usare avvenimenti particolari».