Carla Accardi nel 1950, foto Benedetto Patera

 

E’ il 25 aprile 1979 quando Anna Zanoli, l’allieva di Longhi prestata alla televisione, dedica alla Triplice tenda di Carla Accardi una puntata della sua rubrica «Artista in studio» per il settimanale di arti figurative Vidikon. In quell’occasione l’aveva definita una «costruzione di carte da gioco disegnate da Gentile da Fabriano», cogliendo il lato prezioso della scrittura ondosa che ricopriva i fogli di sicofoil della tenda degna di un «principe nomade». Ma l’intuito registico aveva suggerito alla Zanoli di illuminarla dall’interno, nel buio dello Studio 2 della Rai di Milano, sottolineando la trasparenza del materiale e la vibrazione percettiva della tessitura di segni da cui filtrava la luce. Carla Accardi diceva di aver voluto che la sua tenda fosse fragile ma al contempo resistente; Anna Zanoli – che qui ci è piaciuto ricordare dopo la sua recente scomparsa – mostrava come potesse diventare un caleidoscopio di rifrazioni luminose. I pochi minuti di questo servizio, con l’occhio della telecamera che si insinua nello spazio concentrico delle tre tende, una dentro l’altra come scatole cinesi, è forse il commento più eloquente di quello snodo cruciale del lavoro di Accardi fra 1965 e 1969, con il passaggio dalla tela ai grandi fogli trasparenti liberi dal telaio, pronti a diventare elemento base di strutture tridimensionali attraversabili.
È un capitolo importante, proposto per via documentaria, della retrospettiva Carla Accardi Contesti visitabile – fino al 27 giugno presso il Museo del Novecento, curata da Maria Grazia Messina e Anna Maria Montaldo con Giorgia Gastaldon (catalogo Electa) –, che ripercorre con un’accorta selezione di opere tutto l’arco cronologico di ricerca dell’artista, dalle fasi più sperimentali alla formalizzazione monumentale ma decorativa degli anni maturi.
La partenza, come sottolinea una rapsodica sala di gruppo – unico «contesto» evocato in tutto l’itinerario espositivo, con una serie di opere di confronto – è corale: dall’approdo a Roma nel 1946, ventiduenne, insieme ad Antonio Sanfilippo, siciliano come lei e suo marito nel 1949 , è tutto un susseguirsi di mostre e dichiarazioni, di intersezioni e di scambi condivisi con Piero Dorazio, Achille Perilli, Pietro Consagra e Giulio Turcato. I giovani marxisti e astrattisti – così si erano proclamati nel numero unico «Forma 1» del marzo 1947 – sono voraci e curiosi: a Parigi, fra il 1946 e il 1947, si fanno indicare da Alberto Magnelli quali artisti incontrare; a Roma, Giacomo Balla ed Enrico Prampolini sono i numi tutelari di una costellazione astratta che nel giro di pochi anni avrebbe chiarito i propri schieramenti, fra Roma, Milano, Torino e Napoli, attraverso una serie di mostre istituzionali.
Accanto a questi eventi, però, ci sono i musei, e per Accardi, come sottolinea Maria Grazia Messina introducendo un inedito tratto «primitivo» nella lettura di questa pittura, avrà un ruolo seminale la visita al Musée de l’Homme: le decorazioni fittili viste allora produrranno un effetto duraturo, portando l’artista a maturare nel 1953, dopo alcuni anni di biomorfismi e di incastri di campiture, una tramatura di segni graficamente risolti. È un cammino inizialmente condiviso con Sanfilippo, come lei forse debitore dei quadri di Tancredi che Carlo Cardazzo aveva portato a Roma nei primi anni cinquanta, ma presto autonomo e solitario, volto all’approfondimento di un arabesco formicolante, organico e meccanico a un tempo, che aggredisce lo spazio.
«Una scrittura pesante», avrebbe scritto Enrico Crispolti nel 1960, «e quasi emblematica», che poteva affermarsi come «possibile nuova costituzione d’immagine», e che segue un itinerario di progressiva semplificazione, dentro e fuori le linee guida suggerite da Michel Tapié, giocando sulle interferenze visive di altri medium, come la fotografia. Ha un ruolo seminale, sottolinea sempre Messina, un suo ritratto fotografico giovanile realizzato nel 1950 da Benedetto Patera, attraversato da un disegno luminoso che riprendeva il trucco inventato da Cocteau e messo in pratica da Gjon Mili, da cui avrebbe potuto desumere l’idea di lavorare con segni bianchi su fondi neri, sortendo l’effetto di una visione «in negativo». Da lì in poi, come ricostruito dal saggio di Giorgia Gastaldon, l’esegesi critica insisterà costantemente sul concetto di segno, fino alla felice definizione di «spazio tessuto» coniata nel 1976 da Annemarie Sauzeau Boetti, che stabilendo un nesso fra operatività artistica e pratiche femminili emanciperà la lettura di questa pittura da usurati stereotipi di genere. Era un tema molto caro all’Accardi, militante della prima ora nel movimento femminista insieme a Carla Lonzi, con cui si instaura il sodalizio più intenso, fondato su vedute condivise sia in fatto di politica che di critica d’arte.
Ma il vero momento di rottura, ricostruito da Laura Iamurri, avviene dopo la Biennale del 1964, dove l’artista è presente con una sala personale presentata proprio da Lonzi e dove rimane impressionata dai pittori americani: dopo scritture sempre più larghe – simili secondo Messina a dettagli ingranditi delle trame da lei stessa ordite – e segni più corsivi e seriali che spendono tutto il repertorio ipnotico dei colori fluorescenti per simulare un rilievo tattile entro una cornice «pop», Accardi decide di lavorare su grandi fogli di acetato sfruttandone la risposta alla luce. Le «tende» presentate a «Notizie» nel 1966 – in anticipo sulla Cassa Sistina di Mario Ceroli –, e poi la Triplice tenda del 1969 nasceranno proprio come sviluppi di questa sperimentazione, dopo «coni» e «rotoli» che gareggiano col design e sortiscono effetti simili a certe filigrane a merletto del vetro muranese.
La scommessa di quella ricerca, in fondo, era proprio qui: ottenere un segno fluttuante, disincarnato da un supporto, che dona un inaspettato rilievo plastico all’arabesco ondoso e alle possibili combinazioni di fogli sovrapposti, come a scomporre quelle trame che Dorazio sovrapponeva con pazienti velature reticolari, filtrando un vivace colore-luce. La questione diventerà concettualmente più complessa quando l’artista deciderà di enfatizzare il ruolo del telaio che regge il supporto, trasformandolo in una vera e propria finestra e raddoppiando con l’ombra portata l’effetto ottico della scrittura pittorica: il rapporto fra trasparenza e opacità della «finestra» di Gent (1971-’86), su cui si sofferma Francesco Tedeschi, la porta a costruire dei quadri-oggetto che non solo giocano sul dispositivo della cornice, ma modificano lo spazio a parete su cui vengono collocati.
Tutto questo ha una conseguenza fondamentale: passando all’uso del sicofoil l’artista raggiunge una dimensione progettuale in cui la pittura è solo una fase di un lavoro installativo più complesso, studiato con una serie di disegni preparatori e discusso con critici e galleristi. Lonzi e Pistoi sono interlocutori fondamentali, e proprio quest’ultimo si era accorto, scrivendole il 22 settembre 1965, del rischio di una pittura «applicata» che uscisse dalla direzione di «rigore formale» che le era propria. Se pure decorazione vi fosse stata, non farebbe che confermare quell’attrazione per un immaginario primario già manifestata durante il viaggio parigino di vent’anni prima. Al tempo stesso, la fedeltà verso il colore non sarebbe mai venuta meno, tramite la conversione del segno in icona, dalla traccia di una reiterata rotazione di polso alla dilatazione in forme sempre più ampie, come un confronto diretto fra istinto della mano e programmatica, cosciente automazione.