Secondo un’antica tradizione, nessuna scienza può dire da sé in che cosa essa consista. Rispondere a questa domanda è invece compito della filosofia – l’unica disciplina che può dar conto di sé da sé. Nella misura in cui è in grado di girare su stesso, quello della filosofia si presenta come un discorso centrifugo che implica sempre altro. La dinamica del pensiero somiglia a quella della grammatica per il linguaggio. Cioè al gioco di tutti i presupposti di per sé insignificanti come ad esempio fonemi, lettere, sillabe che messi insieme però formano parole le quali permettono di costruire il senso della frase e dar luogo al soggetto del discorso. Proprio percorrendone tale dinamica grammaticale, Giorgio Agamben torna a chiedersi Che cos’è la filosofia? (Quodlibet, pp. 156, euro 16) attraverso cinque argomenti: voce, esigenza, idea, proemio e musica.
Sulla voce, Agamben riprende ricerche precedenti approfondendo quello che aveva indagato come un Experimentum linguae in quello che ora diventa un Experimentum vocis. A differenza di quanto sostenuto da Derrida, per Agamben non la voce, ma la lettera che la trascrive è ciò che domina e sbarra il pensiero. Compito della filosofia è allora quello di tornare a indagare la voce quale punto di contatto e al contempo cesura fra tutte le dicotomie che caratterizzano il linguaggio e il vivente.

Per Agamben, il vivente umano non è soltanto «animale politico», ma colui la cui politicità è attestata anzitutto dal fatto di non aver mai rinunciato al linguaggio nel corso della sua storia. In tal senso, il linguaggio non è essenzialmente grammatica, ma è anzitutto antropogenesi politica. Per tal motivo, assolvere il compito del pensiero dell’essere politico parlante richiede la dimissione di ogni grammatica come base del sapere. Per Agamben, occorre andare oltre la trascrizione nelle lettere (grammata) delle affezioni dell’anima di Aristotele. E oltre anche le sempre più stringenti riduzioni del linguaggio a codice senza pensieri. Per far ciò bisogna rimettersi sulla via tracciata da Platone che riteneva impossibile dividere la voce, il factum loquendi in qualsivoglia sistema di unità e opposizioni. L’origine del linguaggio come inizio dell’umano è una ricerca che parte sempre da dopo. In tal senso questa è sempre, platonicamente, anche rammemorazione. Ed è altresì a causa di ciò che trovare il principio dell’antropogenesi è anche sempre giungere dove già siamo. Cercare nella lingua conduce a un vivente, a una voce umana, al verso o gesto di un animale. Nessun alfabeto fonetico può da sé insegnarci a pronunciare un segno se non c’è una voce a esso combinata che, almeno la prima volta, ci mostra il collegamento proferendolo.

Ciò vuol dire che tutte le cesure che caratterizzano il linguaggio sono in realtà snodi da una lingua all’altra, passaggi da un vivente all’altro. Senza questo presupposto comunitario, senza questo simultaneo snodarsi di più modalità d’essere, nessuna lingua, codice e sistema sarebbero possibili. Pensare tale presupposto, tale distinzione inseparabile dello snodo è la vocazione della filosofia, la sua stessa voce, secondo Agamben.
Quando dobbiamo scegliere possiamo condurci a forzare la possibilità e trasformarla in dover-fare, in dover-essere. Nella tradizione occidentale si è frequentemente identificato tutto l’essere con il dovere attraverso la dottrina della necessità. Nel secondo scritto qui raccolto, Agamben interviene proprio sulla necessità per riportarla oltre il dover-essere a individuare invece nell’«esigenza» di poter-essere la cosa del pensiero. Seguendo anche qui Platone (ma anche il conatus di Spinoza), l’esigenza è illustrata da Agamben come la possibilità della materia di diventare tutte le forme dell’essere. Per Agamben la materia non è dunque un sostrato, una sorta di hardware del software delle forme, ma la possibilità stessa che si diano forme.

Come non esiste una materia che non sia già anche la possibilità di una forma, che non sia qualcosa che abbia già un nome, così non esiste un silenzio completamente separato e contrapposto al linguaggio. Non la pretesa dell’indicibile che trasforma la possibilità di dire nel potere (politico) della parola sovrana, ma il dicibile è, secondo Agamben, il problema con il quale la filosofia deve sempre misurarsi. Il silenzio risalta soltanto se esso segue il presupposto di una parola già detta e di un’altra che seguirà. Questa intermediazione senza relazione tra un detto precedente e successivo è il dicibile.

Per Agamben il dicibile rappresenta la vera natura intermediaria dell’idea platonica. Questa non si trova in nessun luogo separato e a lei sola deputato. Non è un universale, sulla cui natura soprattutto la filosofia medievale si è tanto interrogata. Piuttosto, l’idea mette in contatto e per ciò stesso separa il lato semiotico e quello semantico del linguaggio, la materia e la forma delle cose. Analogamente, essa è da un lato nome e dall’altro numero. Per questo, secondo Agamben, di una matematica fuori dal linguaggio, presunto fondamento diretto dell’ontologia come vorrebbe Badiou, noi non sappiamo nulla.

Se il nominare dell’idea è il presupposto del linguaggio, allora si capisce in che senso per Agamben, la filosofia ha a che fare soprattutto con quel genere di scrittura che precede un’opera poetica, cioè il proemio. Dal punto di vista della scrittura, la filosofia sta nel suo precipuo elemento quando si rende conto che l’idea dell’opera che il pensiero scriverà è già un’opera dell’idea. Per tal motivo, potremmo immaginare la stessa riflessione filosofica di Agamben come un insieme di note e commenti attorno a pagine che costituiscono lo spazio intonso della possibilità di un’opera a venire.

L’opera per eccellenza sempre a venire, quella che vive solo nello spazio del tempo in cui essa accade, è la musica. Tale fare del tempo spazio e materia è nominare epocalmente il legame tra essere e linguaggio. Per questo secondo Agamben vi è sempre omologia tra musica e politica di un’epoca storica. Quella in cui viviamo ha, sia per la musica che per la politica, l’esigenza di una profonda riforma. Come formulare quest’ultima, con quale ritmo voce idea nominarla è il compito politico per eccellenza del pensiero – la risposta alla domanda che cos’è la filosofia.